[12/02/2013] News

Occupazione, il demografo Rosina: «Ecco i tre freni che bloccano i giovani. Youth Garantee grande opportunità»

Greenreport.it ha intervistato Alessandro Rosina, professore di Demografia all’Università Cattolica di Milanoe autore del libro “L’Italia che non cresce. Gli alibi di un paese immobile”, saggi Laterza, 2013

Il nord Europa l'ha introdotto da tempo, dall'Unione europea alla Cgil spingono perché venga introdotto anche in Italia, la bozza del nuovo bilancio Ue pluriennale lo contempla: in cosa consiste esattamente il meccanismo della youth guarantee e quale impatto potrebbe avere nel contesto italiano?

«L'obiettivo della Youth Guarantee è quello di offrire a ogni giovane europeo strumenti efficaci e mirati a favore dell'inserimento e della permanenza attiva nel mercato del lavoro. Si rivolge ad under 25 che abbiamo appena finito gli studi o perso l'impiego e garantisce che ciascuno di essi abbia un'offerta di lavoro, un contratto di apprendistato o un corso di formazione coerente con gli sbocchi occupazionali esistenti. Ci sono già vari paesi europei che lo hanno implementato o che si stanno preparando a farlo.

Per il nostro paese è particolarmente importante visto che più che altrove è drammaticamente alta la probabilità che un giovane anziché essere produttivo e contribuire alle entrate fiscali, sia un peso per la famiglia e un costo per la collettività. E' una misura efficace di riduzione del numero dei NEET, ovvero dei giovani che non studiano e non lavorano, fenomeno che tocca punte particolarmente alte in Italia. Rientra nelle politiche di attivazione che da noi sono particolarmente carenti.

L'aspetto nevralgico è costituito dai servizi per l'impiego che da strumento attualmente del tutto marginale in Italia devono diventare il ponte privilegiato di ingresso nel mondo del lavoro. In pratica, si prevede che il giovane firmi un vero e proprio contratto con diritti e doveri reciproci di impegno a seguire ed essere assistito in un percorso di orientamento, inserimento lavorativo o progetto di autoimpiego. In modo che "nessun giovane sia più lasciato solo nella ricerca del lavoro"».

A livello nazionale, quali politiche a favore delle nuove generazioni - in particolare sotto il profilo occupazionale - ritiene dovrebbero essere promosse dal nuovo governo ormai alle porte?

«Nel mio libro appena uscito per i saggi Laterza, dal titolo "L'Italia che non cresce. Gli alibi di un paese immobile", dedico tutto un capitolo ai freni che impediscono alle nuove generazioni di conquistare una posizione centrale nel modello di crescita di questo paese. Ne cito tre. Il primo lo abbiamo già affrontato nella domanda precedente e riguarda la carenza di politiche attive di inserimento e permanenza dei giovani nel mercato del lavoro. Chi ha contratti instabili in Italia si trova, rispetto al resto d'Europa, non solo con carriere più discontinue, ma anche con remunerazioni più basse e con minor welfare pubblico.

Ma a frenare il contributo attivo delle nuove generazioni non è solo l'inadeguatezza del sistema di welfare. In particolare la valorizzazione del capitale umano dei giovani è fortemente legata all'espansione delle opportunità che si possono trovare, o contribuire a creare, nel mondo del lavoro. Proprio per questo, tra le priorità indicate dalla Strategia "Europa 2020" c'è l'incentivo agli investimenti in ricerca e sviluppo, che continuano, e questo è il secondo freno, ad essere particolarmente bassi in Italia. L'espansione dei settori più innovativi e tecnologicamente avanzati è infatti parte essenziale di quel circolo virtuoso che spinge al rialzo ricerca e lavoro giovanile qualificato, generando quindi dinamismo economico e ricchezza.

Il terzo freno è di tipo culturale. Senza un cambiamento di atteggiamento che porti ad una consapevolezza diffusa e ad una condivisione ampia dell'importanza di investire sulle nuove generazioni (e non solo di ottenere il meglio per i propri figli contro tutto e contro tutti) diventa difficile trovare il consenso per politiche che tolgono qualcosa a tutti oggi per dare di più a chi ci sarà domani».

I giovani in Italia rappresentano un bene sempre più scarso e, paradossalmente, al contempo scarsamente valorizzato, mentre la piramide della popolazione si allarga progressivamente nelle fasce d'età più avanzate. Quali strategie sarebbe più opportuno mettere in campo per aumentare la natalità in Italia?

«Si, è quello che io chiamo "degiovanimento". Abbiamo fatto meno figli sia rispetto a quanto avremmo voluto sia a quanto auspicabile per contenere peso e costi dell'invecchiamento. Il numero medio di figli realizzato è infatti pari ad 1,4 contro gli oltre 2 che tutte le indagini indicano come obiettivo medio desiderato dalle coppie italiane. Ma oltre ad avere meno giovani diamo ad essi meno spazio ed opportunità rispetto a quanto necessario per valorizzare adeguatamente le loro competenze e capacità. Abbiamo quindi disinvestito sulle nuove generazioni sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo. E' interessante a questo proposito il confronto con la Germania, che ha subito come noi una forte riduzione della natalità, ma che ha compensato con un potenziamento dell'investimento su formazione e attivazione dei giovani. Non solo, ha considerato un problema l'eccessiva riduzione delle nascite e sta ora potenziando anche gli strumenti di conciliazione tra lavoro e famiglia, come i servizi per l'infanzia, a favore sia dell'occupazione femminile che della realizzazione della fecondità desiderata. Un altro limite da superare è un sistema fiscale che penalizza, maggiormente rispetto al resto d'Europa, la scelta di avere figli».

Quello del tasto di natalità non è l'unico possibile da premere per rinverdire la popolazione italiana: c'è anche il saldo migratorio, ma con il perdurare della crisi sempre più stranieri se ne vanno dal nostro Paese. Quali sono le conseguenze di questa tendenza, e come poterla affrontare?

«A lungo l'immigrazione è stata considerata come un fenomeno eccezionale subìto e contrastato anziché come un processo naturale e del tutto funzionale, se gestito adeguatamente, in una economica matura e in una popolazione che invecchia.

Come documentano varie ricerche, una politica ostile nei confronti degli stranieri, che ne complica la vita anziché favorirne l'integrazione, produce immigrazione di bassa qualità. Sia perché scoraggia l'arrivo del capitale umano migliore che se ne va altrove e lascia spazio a chi si adatta di più al ribasso, sia perché non consente a chi è qui di migliorarsi e dare il meglio. Aumenta quindi il rischio che una potenziale risorsa diventi un effettivo problema sociale.

Qui il cambiamento cruciale è una politica guidata da una nuova strategia, con un atteggiamento né passivo e né negativo, ma positivo. Orientata cioè a incentivare immigrazione di qualità, quindi più attenta e selettiva all'ingresso, ma molto aperta e accogliente con chi arriva, promuovendo un rapido ed efficace inserimento nella società italiana. La cittadinanza ai figli di immigrati che frequentano le nostre scuole primarie, il diritto di voto per le elezioni amministrative e procedure meno lunghe di accesso alla piena cittadinanza, sono esempi di cambiamenti da operare in questa direzione».

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