[15/06/2011] News

Sorelle specie aliene

Non chiamiamoli invasori. E non consideriamoli un pericolo. I migranti sono una risorsa, in un mondo che necessariamente cambia.

L'appello che Mark A. Davis, professore di biologia "DeWitt Wallace" presso il Macalester College, di Sant Paul, in Minnesota (Stati Uniti) e altri 18 esperti di ecologia hanno firmato qualche giorno fa sulla rivista Nature, non riguarda i migranti umani ma l'insieme delle specie viventi che in tempi recenti sono apparse, per mille ragioni, in ecosistemi che non le conoscevano, passando magari da una capo all'altro della Terra, e che per questo sono definite "specie aliene".

L'appello è certo destinato a far discutere. Perché si oppone - come riconoscono gli stessi firmatari - a un'idea diffusa non solo tra il grande pubblico, ma anche tra i politici, i conservazionisti e persino tra gli scienziati. L'idea che in tempi recenti in diversi ecosistemi naturali c'è stata un'invasione di "specie aliene", provocata molto spesso in maniera diretta o indiretta (per esempio, le migrazioni indotte dai cambiamenti climatici) dall'uomo. Che le "specie aliene" sono una grave minaccia per le "specie native".

Cosicché, per salvare la biodiversità, occorre distinguere tra "specie aliene" e "specie native", per contrastare in maniera attiva l'invasione degli "alieni", e ripristinare lo stato biologico dei luoghi. Questo è ancora oggi, sostengono Mark A. Davis e gli altri co-autori dell'articolo, il principio guida di molti conservazionisti.

Ma, aggiungono, è un principio guida sbagliato.

Certo nessuno nega che l'introduzione del pesce persico in maniera deliberata nel 1954 nel lago Vittoria abbia causato una devastazione dell'ecosistema lacustre e una riduzione della biodiversità. O che, l'introduzione di alcune specie di uccelli sconosciute all'ecosistema delle Hawaii abbia provocato, all'inizio del ‘900, l'estinzione di metà delle specie di volatili nativi delle isole a causa dello sconosciuto agente della malaria aviaria che ha accompagnato le specie aliene. Ma generalizzare questi e altri episodi non ha fondamento scientifico.

L'idea che le specie aliene siano una minaccia da combattere in maniera sistematica fa leva su una vasta letteratura scientifica, la cui produzione ha inizio nel 1958 quando l'ecologo britannico Charles Elton publica il suo famoso The Ecology of Invasions by Animals and Plants. Da allora oltre 40 gruppi di esperti hanno reso pubblici i loro studi sull'irruzione di "specie aliene" in ecosistemi che non le conoscevano. Nel 1998 David Wilcove e altri hanno pubblicato su BioScience un lavoro, Quantifying threats to imperiled species in the United States, nel quale sostenevano che l'invasione di "specie aliene" rappresenta la seconda causa della rapida erosione della biodiversità cui stiamo assistendo.

E tuttavia, sostengono Mark Davis e i suoi colleghi, non c'è un consenso generale sulla necessità di distinguere le "specie aliene" dalle "specie native" e sulla desiderabilità di un intervento che tenda a ripristinare lo "status ex quo ante".

Per diverse ragioni. In primo luogo perché è l'ambiente stesso che cambia. Muta il clima, si modifica l'utilizzo dei suoli, si altera la presenza dell'azoto. Cambia l'ambiente abiotico e, dunque, cambiano gli ecosistemi. Per cui ripristinare lo "status ex quo ante" è semplicemente impossibile.

In secondo luogo, non sempre la causa della perdita di biodiversità è causata da "specie aliene". Spesso è causata da "specie native": a uccidere la gran parte degli alberi del Nord America - sostengono Davis e gli altri - non è una specie esogena, ma il Dendroc­tonus ponderosae, una specie di insetti endemico di quegli ecosistemi.

Inoltre può succedere che la presenza di nuove specie fa aumentare e non diminuire la biodiversità di una regione, come documentato in un recente lavoro dallo stesso Mark A. Davis.

Infine, c'è una questione pratica. È difficile avere successo nel tentativo di contenere l'espansione delle "specie aliene" e, soprattutto, di ripristinare la presenza delle "specie native" estinte. Prova ne sia che  il tentativo, inaugurato nel 1996, di riportare alle isole Galapagos 30 specie di piante estinte ha avuto successo solo in 4 casi.

Tutto questo, concludono Mark A. Davis e i suoi colleghi, mostra come sia artificiosa la distinzione tra "specie aliene" e "specie native" in un ambiente che cambia. Il che non significa per l'uomo - e per i conservazionisti - rinunciare a ogni intervento e lasciare che tutto proceda senza controllo. Nella gestione degli ecosistemi occorre, sostengono, un nuovo approccio. Che guarda più alla funzione delle specie che non alla loro origine.

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