[07/11/2011] News

Un terzo degli italiani non ha pių fiducia nella democrazia. La stessa percentuale č "analfabeta effettivo"

«Le preoccupazioni degli italiani, ormai segnate dalla crisi economica, hanno reso insopportabili i costi della politica. I privilegi di cui godono i parlamentari e gli amministratori pubblici. E hanno alimentato un clima "antipolitico", sostanzialmente diverso da quello dei primi anni Novanta. Perché allora rifletteva la rottura con il "vecchio" sistema politico. Evocava una domanda di cambiamento, proiettata al futuro. Mentre oggi l'antipolitica riflette la frustrazione suscitata da un sistema politico esausto, prigioniero del presente - e del passato. Anche per questo la "fiducia della democrazia, in Italia, appare in declino».

Il sociologo Ilvo Diamanti, dalle pagine de la Repubblica di oggi, porta dati alla mano a sostegno di questi suoi pensieri, che riflettono i sentimenti di strati della popolazione italiana che si allargano sempre più, accogliendo nuovi adepti dell'antipolitica. Tornando ai dati, estrapolati da un «sondaggio di Demos (l'Istituto di ricerca politica e sociale fondato da Diamanti stesso, ndr) di alcuni giorni fa», questi parlano di come la sfiducia generale verso i nostri rappresentati eletti si stia pian piano allargando fino a coinvolgere la stessa istituzione della democrazia, primo aggettivo da accostare (almeno in teoria) alla nostra Repubblica.

La percentuale di italiani per i quali "la democrazia è preferibile a qualsiasi altra forma di governo" si attesta ad un magro 67,4%, mentre il 9,9% giudica come "in alcune circostanze, un regime autoritario può essere preferibile al sistema democratica", e la percentuale di coloro che ritengono che per loro tra "autoritario e democratico non c'è molta differenza" ha subito un impennata rispetto agli anni passati; adesso accorpa il 22,7% degli intervistati, mentre si fermava al 16,2% dieci anni fa, e al 15,9% solo nel 2008.

Ricordando come sia sempre opportuno inquadrare i dati provenienti da simili sondaggi in quell'ottica che li vede estrapolati da un campione molto ristretto rispetto all'insieme a cui tendono riferirsi (in tale caso, l'intera Italia), è pur giusto render loro i meriti e la valenza che gli spettano. I risultati ottenuti da Demos non fanno che confermare con la freddezza dei numeri la vena emozionale che percorre la società, e dalla quale è possibile chiaramente come, a sentir nominare la parola "politica", all'italiano medio venga immediatamente un forte attacco di orticaria.

«Difficile sorprendersi. La democrazia rappresentativa non sta offrendo grande prova di sé, in questa fase. In Italia, ma non solo», sottolinea Diamanti. Questa prospettiva trova peraltro molteplici appoggi sulla scena politica nazionale ed internazionale, a partire dai vari commissariamenti - imposti da autorità finanziarie e non elettive o dall'Europa nella sua versione Merkoszysta - all'Italia, continuando con il patetico ecosistema politico interno al Paese, dove il mercanteggiamento dei parlamentari è diventato il modus operandi di un governo incapace di mantenere la propria maggioranza.

Le proteste che riempiono le piazze italiane e mondiali riversano rabbiosamente la propria giusta rabbia verso l'esistenza e la collusione cancerosa tra quella casta politica e quella finanziaria che pilotano i destini del mondo a seconda dei propri interessi, ma questa indignazione generalizzata (alla quale, beninteso, non è lecito esigere soluzioni precise alla crisi) rischia effettivamente di poter costituire il pretesto per gridare "basta" non solo a questa politica, ma alla politica ed alla democrazia in generale.

D'altronde, quello democratico non è certo il modo più facile di far politica per i cittadini, in quanto delega loro una buona dose di responsabilità, assieme alla sovranità. E più sovranità viene effettivamente pretesa dai cittadini, più aumenta la fetta di responsabilità che viene loro automaticamente attribuita.

Per una democrazia consapevole, è dunque fondamentale un cittadino consapevole e preparato ad affrontare il peso della responsabilità che viene lui affidata. Ed è invece proprio la mancanza di consapevolezza e preparazione il deficit forse maggiore della nostra democrazia. Mario Pirani, ancora dalle pagine de la Repubblica, riporta infatti come nel nostro Paese, secondo il noto prof. Saverio Avveduto - presidente onorario dell'Unla, l'Unione nazionale per la lotta contro l'analfabetismo - «gli analfabeti effettivi sono da stimare a un terzo della popolazione e sfiorano i venti milioni. Una cifra assai lontana da quell'1% che alla domanda scritta dell'Istat ha il coraggio di rispondere sinceramente di "non saper né leggere né scrivere"». Sarà una coincidenza, ma questo 33% si accoppia quasi alla perfezione con quel 36,6% che nel sondaggio Demos ha risposto di non "preferire la democrazia a qualsiasi altra forma di governo".

Un dato che sconforta ancora di più del quadro riportato da Pirani, che parla di una distanza abissale tra le oasi di alto sapere (che comprendono premi Nobel e grandi chirurghi, scienziati e letterati, ricercatori industriali contesi a livello internazionale) e i vasti deserti di una popolazione priva delle conoscenze essenziali per orientarsi nella complessità del mondo d'oggi», e che è falcidiata dalla sindrome del "meno cinque", una regola della pedagogia sperimentale secondo la quale, «in età adulta regrediamo di cinque anni rispetto ai livelli massimi delle competenze cui siamo giunti nell'istruzione scolastica formale», offrendo così uno spaccato della società italiana ben peggiore di quello ritratto dall'Istat, poiché colpito con forza da questa sorta di "analfabetismo di ritorno".

«Se riflettiamo su questo dato assai più reale delle statistiche ufficiali ci si rende conto di quanto incida la pochezza culturale e il basso livello del capitale umano», chiosa Pirani. Se a questo si aggiungono i dati Ocse (che parlano di un'Italia penultima per condizione educativa su una trentina di Paesi, o che pure ci allineano a Portogallo, Grecia, Irlanda e Spagna (non a caso, i Piigs europei) per i bassi investimenti in conoscenza), il quadro generale diviene ancora più fosco.

Neanche i media aiutano a risollevare la situazione ma, anzi, ne sono fondamentali corresponsabili: i grandi emittenti nazionali dedicano pochissimo spazio ai programmi classificati come culturali, con le poche eccezioni positive (Rai radio Tre, col 32,8% delle ore dedicate al tema in un anno, e La7 con il suo 20,3%) e le tante conferme negative (Italia1 0%, Canale5 0,3%, Rete4 1,9%, Rai Uno4,3%, Rai Due 10,6%, Rai Tre 13,2%).

Se è vero che un popolo non è mai effettivamente pronto per la democrazia, ma lo diventa esercitandola, è ancor più vero che tale popolo deve esser messo nelle condizioni di esercitarla, e di volerla esercitare: sono questi i requisiti indispensabili da accompagnare all'accellerata democratica che da più parti (e per primo dalle proteste di piazza) viene giustamente invocata. Tutti, ed il mondo dell'informazione e dell'educazione, devono dunque apportare il loro contributo, se si desidera portare lustro alla parola "democrazia".

 

Torna all'archivio