[09/01/2012] News

La sostenibilità nel mondo contemporaneo ed in quello antico. Per quale futuro?

Dalle radici storiche della "sostenibilità", ai frutti che possiamo coltivare e riuscire a cogliere

Concetti come quello della "sostenibilità" appaiono esclusivamente come parti dell'universo contemporaneo. In una sorta di indagine culturale, però, tentare di scoprire pietre di paragone con il mondo degli antichi può rappresentare un prezioso aiuto proprio per comprendere la sfida della sostenibilità che questo mondo moderno ci pone innanzi, e che altrimenti potremmo soppesare sbirciando solamente dalla limitata finestra concessaci da una prospettiva storica chiusa nel momento presente.

«Di fatto il problema della sostenibilità non ha più di alcune decine di anni. Se non s'inquina massicciamente, la questione non se la pone nessuno»: l'antropologo Cristiano Viglietti, cui greenreport.it ha chiesto compagnia nel percorso di questa riflessione, evita subito la possibilità latente di perderci in chissà quali voli pindarici. Eppure, da quando - approssimativamente 70000 anni fa - i nostri antenati "anatomicamente moderni" si sparsero per il pianeta, il loro (ed il nostro) rapporto con l'ecosistema che ci circonda è giocoforza segnato da un cordone ombelicale inscindibile, dalla cui evoluzione nel tempo è certamente lecito tentare di estrapolare qualcosa di grande valore. Con tutti i distinguo, le incertezze e le difficoltà in cui, è chiaro, una tentazione del genere non può che può farci incappare.

Potrebbe essere utile rielaborare nel contesto attuale i passati significati del concetto "sostenibilità", se erano presenti negli antichi? 

In alcuni autori antichi, specialmente di età imperiale, si fa riferimento all'aria ammorbante che si respirava in prossimità di alcune fabbriche e fucine, o in certi quartieri di Roma, dovuta ora al fumo dei fuochi, ora alla puzza delle fogne. L'inquinamento, dunque, in qualche misura, esisteva anche in antico, ma non certo una riflessione sulla sostenibilità.

Il celebre naturalista Plinio il Vecchio e, quasi in contemporanea, il filosofo Seneca, lamentano, in alcune loro opere, lo sfruttamento eccessivo delle viscere della terra per ottenere minerali e metalli preziosi. Il loro punto di vista non è, tuttavia, "proto-ecologista". Essi sembrano, piuttosto, colpiti dall'atto di empietà nei confronti della madre-terra che verrebbe, per così dire, violentata, dall'azione di uomini tesi a procacciare ricchezze. Il problema, dunque, più che l'inquinamento, è, per questi autori, l'avidità, il desiderio di ricchezze e lusso, considerati in grado di destabilizzare la società in virtù dell'attitudine egoistica di chi vuole arricchirsi.

 Nella sua Etica Nicomachea, Aristotele scrive come sia assurdo fare dell'uomo felice un solitario: ‹‹nessuno, infatti, sceglierebbe di possedere tutti i beni a costo di goderne da solo››, e le poleis dei liberi cittadini erano a loro volta basate sulla philia. Sembra l'esatto contrario dell'homo homini lupus di stampo hobbesiano, che ancora in qualche modo permane: quale strada ha portato ad un completo ribaltamento culturale come questo? 

 La questione è molto complessa. Intanto perché non è detto che il pensiero di Aristotele fosse quello condiviso in tutto l'Occidente antico, né che le teorizzazioni di Hobbes rappresentino appieno il comune sentire dell'uomo moderno. È vero, tuttavia, che l'individualismo come fenomeno culturale, e filosoficamente teorizzato, è un fatto relativamente recente e tipico delle culture Occidentali e trova, in qualche misura, ragione storica nell'eccessivo peso che le obbligazioni tradizionali di tipo familiare, politico e religioso - e dunque l'annullamento delle istanze individuali sull'altare dei fenomeni di rilievo sociale - dovevano avere sui singoli cittadini, a ben guardare, sin dall'antichità, ma in modo più consistente dalla fine del Medioevo in poi.

Sono numerose le variabili linguistiche con le quali si cerca di ingabbiare e interpretare il significato di un nuovo paradigma socioeconomico da seguire, nella consapevolezza di una sfera economica compresa in quella sociale, a sua volta inclusa in un ecosistema finito. Esempi in tal senso sono le parole "sostenibilità", "decrescita", "beni comuni", "sviluppo sostenibile". Quali, tra i diversi termini, ritiene abbiano le radici più solide e quindi, forse, le prospettive più ampie?     

Non so fino a che punto in Occidente si sia oggi consapevoli della contraddizione che esiste tra la postulazione dell'infinità dei bisogni umani, su cui le ideologie della crescita si basano, e il fatto che i mezzi naturali a disposizione dell'uomo sono finiti mentre le trasformazione dell'energia nelle sue diverse forme (calore, movimento ecc.) non sono totalmente reversibili. È forse da questa poca chiarezza che deriva il successo di espressioni vaghe e contraddittorie come "sviluppo sostenibile". Le uniche economie della storia che non sono sostenibili per l'ambiente sono quelle sviluppate, soprattutto nelle forme che hanno assunto negli ultimi quarant'anni e dunque non credo che "sviluppo sostenibile" possa essere utile a identificare un paradigma economico realmente alternativo a quello attuale.

"Decrescita", poi, è un termine fuorviante, che accentua l'aspetto negativo della critica all'ideologia della crescita e che viene percepito come sinonimo di recessione, o di ritorno a un passato di miseria. Non è forse un caso se recentemente Serge Latouche, massimo esponente delle teorie della decrescita, ha iniziato a usare il termine "frugalità" per condensare la sua idea di un'economia che sia antropologicamente estranea ai principi della crescita. Frugale, infatti, è, già nell'antichità, chi considera i suoi bisogni come limitati e che, proprio per questo motivo, può raggiungere facilmente la soddisfazione dei suoi desideri materiali. In questo senso mi pare che la frugalità possa rappresentare la chiave di volta per un'economia, e una cultura, realmente sostenibili.

 

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