[20/01/2012] News

E anche la Francia si è accorta della necessità dell'industria

C'era una volta il post industriale scrivevamo qualche tempo fa di fronte a quanto stava accadendo negli Usa e a quanto ritenevamo dovesse presto accadere in Europa e in Italia. La conferma che stavamo guardando nella giusta direzione, arriva dalla Francia, come spiega oggi il Sole24Ore commentando la notizia della chiusura dell'ultima fabbrica di Lejabym la cui produzione è stata trasferita in Tunisia.

«Un'altra chiusura simbolica - si legge sul Sole - , dopo quelle di Arcelor, di Continentale, di Molex. Un altro pezzo di manifatturiero che se ne va proprio quando Nicolas Sarkozy ha deciso - con incredibile ritardo - di focalizzare la propria politica, e la propria campagna elettorale a tre mesi dal primo turno delle presidenziali, sugli handicap che la Francia ha accumulato in materia di competitività e di ruolo dell'industria. Con incredibile ritardo perché oggi si stanno raccogliendo i frutti di scelte, e di non scelte, che risalgono alla fine degli anni 90».

«Le ragioni di questo fenomeno - si legge sempre sul Sole - sono molteplici: un contesto sociale, culturale e politico sostanzialmente anti-industriale (che ha contribuito al sostanziale abbandono della siderurgia e della chimica di base); lo squilibrio nei trattamenti contrattuali tra lavoro privato e pubblico, ovviamente a vantaggio del secondo; un sistema di imprese medio-piccole poco innovative e sottocapitalizzate, a lungo mascherato dai successi di Airbus, del nucleare, del Tgv; il sostegno allo sviluppo di un terziario che però non è neppure quello finanziario inglese ad alto valore aggiunto ma quello povero del turismo. E siamo solo all'inizio di una lunga lista».

Mentre in Europa si pensava alla dematerializzazione, alla fine del lavoro manuale e dell'industria e alle splendide opportunità offerte dal terziario avanzato (nel senso che è stato messo in frigo), la globalizzazione riportava le cose al suo posto secondo le più banali leggi del mercato: non chiusura delle fabbriche perché non servono, ma apertura delle stesse dove il lavoro costa poco e l'ambiente è solo un problema burocratico facilmente bypassabile. Il tutto caldeggiato dagli stessi politici e partiti da loro rappresentati che questa fase l'hanno ben governata proprio nella direzione in cui siamo arrivati.

Delocalizzazione prima caldeggiata e ora demonizzata, quando ormai i buoi se ne sono scappati da mo'. Che fare quindi? Riportare la siderurgia in Europa? Più facile rimettere il dentifricio nel tubetto. No, serve a parer nostro una nuova era industriale che veda l'Europa e l'Italia leader del manifatturiero "sostenibile" con un tocco ovviamente di protezionismo, nel senso che deve sfruttare i giacimenti di quelle "materie prime" che ha, come ad esempio i rifiuti urbani e gli scarti industriali, lanciando finalmente i prodotti del riciclo proprio come nuova politica industriale.

Un politica che veda poi l'incentivazione a ricerca e innovazione in cooperazione con aziende, pubbliche e private, tutta declinata sull'ambiente: dall'efficienza energetica; alla riduzione degli impatti; al miglioramento dei processi produttivi; alla mitigazione del dissesto idrogeologico e così via.

Non bisogna scomodare Marx per capire che molto su questo approdo dell'ipercapitalismo finanziario e sulla bulimia suicida delle multinazionali che hanno guidato per mano i governi su questa strada era già scritto... Il problema è che la politica e la classe imprenditoriale che ha assecondato tutto questo ora si candida al ruolo di critico e di alternativa.

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