[20/06/2012] News

Il bene pių scarso e la risorsa meno rinnovabile di tutte č il tempo, che noi sprechiamo

Si aprono oggi le danze della Conferenza Onu sullo sviluppo sostenibile, e Rio de Janeiro sembra offrirà però ben poco da festeggiare per le istanze ecologiste. Anche e soprattutto i più accorti osservatori dell'economia mondiale, ai quali non sfugge il legame inscindibile tra le sue disgrazie e quelle che portano al degrado ed all'impoverimento degli ecosistemi - che rappresentano sempre e comunque l'inizio e la fine di ogni ciclo economico - corrono il serio rischio di una doppia e cocente delusione dopo quella del G20 messicano, conclusosi con una scialba dichiarazione d'intenti sulla crescita (che non c'è). Sostanzialmente, l'ennesimo nulla di fatto.

Viene seriamente da domandarsi i perché di questa innumerevole sfilza di insuccessi, che implacabilmente si susseguono uno dietro l'altro. Si ha quasi la sensazione che, dopo l'estasi indotta dall'illusione della crescita infinita, il brusco stop imposto dalla crisi abbia prodotto uno shock ancora non riassorbito: che l'effetto sia voluto, come forse sottolineerebbe Naomi Klein, autrice di Shock Economy, è un altro paio di maniche ancora. Non c'è neanche il coraggio di applicare fino in fondo quei principi economici che assurdamente si vorrebbe guidassero in esclusiva l'ordine sociale. Se da parte di tutti ci fosse invece l'onestà di farlo, si attribuirebbe il giusto valore al più scarso e più esauribile di tutti i beni: il tempo. Non ne abbiamo molto.

I cambiamenti ambientali si sommano, accentuando retroazioni positive che minacciano di sorpassare la soglia critica dell'irreversibilità in un momento sempre più prossimo. Al contempo, l'urgenza sociale della crisi ci pone davanti agli occhi con drammatica evidenza che l'attuale ed insostenibile modello di sviluppo - predatorio di risorse ambientali ed accentratore di risorse materiali e pecuniarie - è arrivato alla fine dei suoi giorni. La soluzione dell'accanimento terapeutico, quella perseguita finora, non può ovviamente rappresentare la soluzione ai nostri problemi.

«Il gioco dell'investimento professionale è noioso e defatigante in modo intollerabile per chiunque sia del tutto immune dall'istinto del gioco d'azzardo - ebbe a dire J. M. Keynes - e chi lo possiede deve pagare il giusto scotto per questa sua tendenza». Uno dei grandi problemi della nostra epoca è proprio che questa proporzione si è ribaltata: i grandi investitori che possiedono «l'istinto del gioco d'azzardo» ne traggono le relative rendite positive, mentre accollano le perdite al resto dei concittadini. Tramite una deregolamentazione da parte della politica, ispirata dagli orizzonti dipinti dall'ideologia neoliberista, si è disegnato per gli speculatori una globale paese del Bengodi, dei quali non c'è da stupirsi che se ne siano approfittati.

Come spiega il sociologo Luciano Gallino durante un suo intervento a Torino, «Quel che è successo è che nel 2007/2008 il valore nominale dei derivati che giravano per il mondo - cioè il valore scritto nei contratti- si aggirava su poco meno di settecentocinquanta trilioni di dollari. Il Pil globale nel 2007 è stato di 57 trilioni di dollari, quindi i derivati in circolazione equivalevano a più di dodici volte il Pil del mondo».

Opera della cosiddetta "regolamentazione a tocco leggero", come sottolinea Masciandaro sul Sole24Ore specificandone alcuni aspetti peculiari: «se tutti coloro che vogliono assumersi un rischio - perché scommettono sulla realizzazione o meno di un certo evento - sono messi nelle condizioni di farlo, il mondo sarà migliore. Per cui: spazio anche ai derivati speculativi, senza limiti». La crisi ci ha insegnato (o dovrebbe averlo fatto) che non è così.

«Il rischio sistemico è un caso di esternalità finanziaria: tutti rischiano di pagare i comportamenti non prudenti di una parte della popolazione; per non parlare dei comportamenti insani scorretti veri e propri, più probabili quando gli scambi non sono regolamentati». Una sorta di ribaltamento dell'idea di beni comuni: malus comuni, beni privati.

La situazione è dunque drammatica, ma le prospettive non sono per forza così nere. Sarebbe sufficiente destarsi e prendere coscienza una volta per tutte che la nostra posizione non è dovuta agli indomabili animal spirits del mercato, ma chi ha permesso loro di scorrazzare liberi ed ha voluto un'economia slegata, non incorporata - non embedded, direbbe Polanyi - nella struttura sociale. Come dovrebbe essere ormai evidente, le responsabilità di questo processo sono di natura politica, ed è quindi possibile per la politica e la società civile mettervi rimedio tramite un robusto processo di regolamentazione. La vera domanda è se lo vogliamo davvero, e soprattutto se ci rendiamo conto o no dell'urgenza di tale quesito.

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