[20/08/2012] News

La gestione del ciclo integrato dei rifiuti, fra vuoto politico e scelte sbagliate

Un’intervista a Marco Armiero, storico ambientale e ricercatore del CNR di Napoli

Marco Armiero è primo ricercatore presso l'Istituto di Studi sulle Societâ del Mediterraneo del CNR di Napoli. Ha lavorato a Yale, Berkeley, Stanford e Barcellona. Attualmente lavora presso il Centro di Studi Sociali dell'Università di Coimbra e ha appena concluso il progetto di ricerca Lares-Paesaggi della Resistenza» sulle lotte intorno a rifiuti e inceneritori in Campania negli ultimi venti anni - un progetto Marie Curie finanziato dalla Unione Europea.

Da dove nasce questo progetto e con quale obiettivo?

Di mestiere sono uno storico ambientale, mi occupo cioè di indagare sui rapporti tra società e ambienti nel tempo. Se preferisci potremmo dire che sono uno storico che prova  a fare storia come se la natura esistesse e contasse pure qualcosa. Ora una delle caratteristiche della storia ambientale, che per la verità è disciplina sconosciuta in Italia, è proprio il suo impegno. Gli storici ambientali sono gli "ultimi dei moicani"; nel disastro della storiografia impegnata credono ancora che il loro lavoro possa servire non dico a cambiare il mondo, ma per lo meno a criticarlo radicalmente. Per carità non è che tutta la storia ambientale funziona in questo modo, ma diciamo che questa è la storia ambientale che faccio io e in cui mi riconosco.

Dunque qualche tempo fa invitai a Napoli Donald Worster, uno dei padri della storia ambientale a livello mondiale, con il quale ho avuto la fortuna di studiare in Kansas; lui doveva fare una relazione ad una conferenza che avevo organizzato. Eravamo a Napoli, come sempre la città era piena di rifiuti e c'era una manifestazione per strada. Così Donald lasciò la relazione scritta che aveva preparato e improvvisando si avvicinò alle finestre e le aprì. Worster invitò gli studenti e tutti i presenti a lasciarsi interrogare da quello che succede nel mondo là fuori, a non prestare troppa attenzione a quello che si dice nelle aule dell'accademia, a non seguire le mode accademiche appunto, a non fare ricerche per fare carriera ma per rispondere alle domande del mondo. Fu allora che mi misi ad ascoltare le voci, gli odori, le immagini che venivano da fuori; e quelle voci, quegli odori, quelle immagini parlavano dei rifiuti. Avevo buone ragioni per non interrogarmi su quelle cose. Mi sono occupato soprattutto di ottocento, ho scritto di foreste e pesca, poi di recente della costruzione delle stato nazionale e di montagne. Insomma non sono un munnezzologo e poi per uno storico occuparsi degli ultimi vent'anni è cosa insolita, se non un vero e proprio tabù. Ma le voci erano troppo forti e mi piace misurarmi con sfide nuove. Così ho deciso che a quarantanni suonati potevo imparare qualcosa di nuovo. Ho preparato un progetto di ricerca sulle lotte sui rifiuti in Campania, ho fatto domanda per una borsa di studio europea Marie Curie e l'ho vinta. Così me ne sono andato a Barcellona per studiare Political Ecology con il professor Martinez Alier e il suo gruppo d ricerca, probabilmente il più interessante centro di studio sui conflitti ambientali.  

Dall'esterno il quadro appare quello di una regione che non ha saputo dare una risposta organizzativa all'altezza nella gestione dei rifiuti urbani e speciali principalmente a livello istituzionale aprendo così anche la strada alla malavita questa sì organizzata e in grado di farlo diventare un pericolosissimo business.

Certo questa è l'impressione, specie dei più informati. Non mancano ipotesi meno elaborate e diciamolo pure piuttosto superficiali. Mentre ero negli Stati Uniti alcuni credevano che il problema campano fosse dovuto agli scioperi degli addetti. Molto più insidiosa la vulgata che colpevolizza le cittadine e i cittadini della Campania. In un articolo del New York Times di qualche anno fa, un giornalista diceva che la soluzione alla crisi era semplice e a portata di mano, se non fosse stato per le popolazioni che si opponevano a tutto. Di recente ho proposto con Gaicomo D'Alisa un progetto per un libro sui rifiuti campani ad un editore americano e uno dei lettori anonimi della proposta ha detto candidamente che il problema campano sono i cittadini che sarebbero poco inclini al riciclaggio. Meridionali brutti, sporchi e cattivi, come sempre. Tuttavia, la casa editrice ha raccolto le mie critiche a questa impostazione essenzialmente razzista, e il libro si farà. Speriamo che possa contribuire a fare capire meglio questa storia campana all'estero.

 

Le comprensibili lotte a livello locale, sempre dall'esterno, non sembrano differenziarsi molto da altri fenomeni nimby, ma lei sembra avere una ben diversa idea, può spiegarcela?

Mi porti su un terreno difficile, ma proviamo a ragionare. Le opposizioni locali ad infrastrutture indesiderate sono spesso etichettate come NIMBY; non nel mio giardino, insomma. Nimby sarebbe il sinonimo di una attitudine egoista che guarda al particolare senza pensare agli interessi generali. Ci sono due modi per rispondere a questa obiezione. Da una parte credo che si possa dire che tante di queste lotte non sono affatto NIMBY, egoistiche o campanilistiche. Molti dei comitati campani, ad esempio, hanno firmato il "Patto di mutuo soccorso" che impegna le comunità in lotta ad aiutare altre realtà resistenti; ed in effetti così è andata in Campania. I cittadini di Chiaiano sono andati a Pianura, quelli di Giugliano a Terzigno, quelli di Napoli a Serre ecc. Ma la solidarietà è andata anche oltre regione. Tanti e tante sono partiti dalla Campania per la Val di Susa mentre attivisti No Tav e No Da Molin sono stati sempre presenti nelle manifestazioni campane. Qualcuno potrebbe dire che si tratta solo di professionisti della protesta che vanno in giro dove ci sta confusione. Io non credo che sia questo i caso. Piuttosto si è creata una rete di comitati dal basso che si oppongono non più e non solo alla singola infrastruttura, ma a un modello di sviluppo, ad una cultura che privilegia il consumo e il profitto su ogni altra cosa. Intorno a queste battaglie è sorta una consapevolezza più vasta che riguarda, ad esempio, la difesa dei beni comuni; oppure molti di questi attivisti hanno iniziato a ragionare di transizione o decrescita. La lotta in Campania non è stata contro il dato inceneritore o quella discarica, ma contro un modello che crede di risolvere i problemi bruciando e nascondendo i rifiuti da qualche parte. Gli attivisti e le attiviste campane hanno una consapevolezza e una conoscenza sui processi di smaltimento dei rifiuti che pochi cittadini/e hanno altrove. I siti dei comitati sono pieni di progetti ed analisi della situazione, dell'impiantistica, di proposte, di pareri di "esperti", ecc. Tuttavia, vorrei anche aggiungere una considerazione diversa. Cosa ci sarebbe di così mostruoso se queste lotte campane fossero davvero lotte particolari? Il famoso ecocritico inglese Raymond Williams e sulla sua scia il geografo marxista David Harvey hanno parlato del militant particularism, ovvero del particolarismo militante, come di una componente fondamentale delle lotte della classe operaia. Ogni lotta sociale è sempre situata, risponde a bisogni particolari e ha successo quando riesce a diventare una questione generale senza rinnegare il suo particolarismo. Chiedere aumenti di salario o migliori condizioni di lavoro in fabbrica sono rivendicazioni particolari che tuttavia cambiano la società nel suo complesso. Una sinistra che rivendichi solo la difesa di un interesse generale finisce per essere una sinistra disincarnata che non si rivolge più a nessuno. Tra l'altro come storico devo dire che troppo spesso si parla di interesse generale ma in realtà quello che si intende è l'interesse delle classi dominanti.

Lei sostiene che la crisi campana va compresa dentro i movimenti globali per la giustizia ambientale che dal Sud Africa alla Louisiana, da Rio a Delhi hanno cambiato il volto dell'ambientalismo. Quelle lotte partono tutte dalla difesa dell'ambiente prossimo, della comunità, anche dalla tutela della salute personale o familiare; tuttavia, é questo un comportamento "sbagliato", egoista? Non è forse vero che il "senso del luogo", cioè il senso di appartenenza ad un luogo e una comunità, e il "particolarismo militante" sono sempre stati la matrice per più ampie lotte sociali? Può spiegarci meglio questo punto di vista emerso dalla ricerca?

In Italia non si parla affatto di giustizia ambientale. Quando ne parlo spesso vengo frainteso e la gente pensa che stia parlando della legislazione sull'ambiente o delle cosiddette toghe verdi (ovvero di quei magistrati che hanno portato avanti importanti inchieste ecologiche). Il movimento per la giustizia ambientale nasce negli Stati Uniti probabilmente alla fine degli anni settanta o forse nei primi anni ottanta e mette insieme le battaglie per la giustizia sociale, i diritti civili e l'ambiente. La tesi di fondo del movimento per la giustizia ambientale è che i rischi ambientali non sono distribuiti equamente tra gruppi sociali ed etnici. Insomma c'è qualcuno che paga il conto della ricchezza e della sicurezza degli altri. In particolare negli Stati Uniti si parla di razzismo ambientale perché si è scoperto che le minoranze razziali, gli afro-americani, i latini, i nativi, sono più esposti ad ogni tipo di inquinamento. Insomma più che di NIMBY, si parla di PIBBY, metti quello che ti da fastidio nel giardino del nero. Questo movimento per la giustizia ambientale ha rivoluzionato l'ambientalismo. Troppo spesso si è sostenuto che l'ambientalismo è una roba da ricchi, che solo chi ha la pancia piena può occuparsi della natura. Ma questa è una certa idea di ambientalismo che propone una divisione netta tra spazi della natura e spazi dell'abitare e del lavoro. La natura è il luogo della ricreazione, dove si va per il week end, magari, spazio da proteggere e contemplare. Invece, l'EJM dice che la natura è lo spazio dove °si vive, si studia, si lavora e si gioca°; insomma, è uno spazio quotidiano, vicino. Questo ha anche significato mettere profondamente in discussione le associazioni ambientaliste tradizionali, che sono state accusate di razzismo e di essere insensibili nei confronti dei problemi dei gruppi subalterni. Non si tratta, comunque, solo di una realtà americana. Joan Martinez Alier ha spiegato bene che esiste un ambientalismo dei poveri - come lui lo definisce - che è forte nel Sud del mondo e che difende la natura come luogo di sopravvivenza o a volte come spazio dell'identità culturale. Le lotte in India o in Brasile contro le grandi dighe, quelle in Nigeria o Ecuador contro le multinazionali del petrolio, quelle per difendere l'acqua pubblica o quelle contro l'industria estrattiva sono ormai in tutto il mondo. Molte volte questi attivisti non si definiscono neppure ambientalisti, ma pure nelle loro lotte coniugano la difesa della natura, quella della salute, dei diritti civili, del lavoro. Questioni che si sono sempre ritenute separate o addirittura contrapposte sono state ricomposte in una sola rivendicazione.

[credo di aver già detto qualcosa che sul particolarismo militante] 

In Campania praticamente non esistono impianti di alcun tipo, tranne il termovalorizzatore di Acerra che funziona pochissimo e nemmeno troppo bene. Moltissime invece le discariche, la gran parte nate su discariche abusive. Come si possono gestire i rifiuti senza impianti? Come noto la sola raccolta differenziata anche spinta e anche con percentuali molto alte non risolve assolutamente il problema. 

Quella della Campania è soprattutto una crisi di democrazia, come ha scritto il mio amico e collega a Barcellona Giacomo D'Alisa. Credo che insieme alla democrazia sia pure entrata in crisi la fiducia nelle istituzioni democratiche. Mi spiego meglio. In Campania sono emerse storie agghiaccianti di impianti gestiti in maniera a dir poco allegra, di controlli inesistenti, di collusioni, complicità, coperture. Gli impianti di CDR non producevano CDR; in alcune discariche c'erano geyser di percolato e chi ha denunciato è stato trasferito, i controlli venivano fatti da chi doveva essere controllato e gli esempi potrebbero moltiplicarsi. Se i/le cittadini/e non si fidano più di queste istituzioni, come dare loro torto? Se si è autorizzato lo sversamento di fanghi tossici a Pianura è normale che la gente sia preoccupata di avere una discarica. Eppure un attivista campano di lungo corso Giuseppe Messina mi ha raccontato di quando da amministratore locale contribuì all'apertura di una discarica di cui non si è mai sentito parlare, perché appunto non ce ne è stato bisogno. La discarica ha funzionato con gli accorgimenti del caso, è stata chiusa quando esaurita e bonificata. Mi chiedo cosa penserebbero i/le cittadine se si affidasse la gestione e pianificazione di una discarica ad un esperto come Paolo Rabitti, ad esempio, insomma di uno di cui ci si può fidare. Comunque, io credo che hanno ragione i comitati campani quando dicono che bisogna cambiare filosofia, bisogna cominciare a vedere non in termini di rifiuto ma di filiera dei materiali. Magari ci vorranno impianti di smaltimento, sicuri e amministrati in modo trasparente e con un ampio controllo democratico, ma ci vogliono anche norme che cambino i modi di produrre, distribuire, consumare.

Queste lotte locali, sulle quali anche il neosindaco di Napoli ha basato la sua azione di governo al momento hanno prodotto poco più che la spedizione via mare dei rifiuti urbani in Olanda. E' questa una vittoria?

Non so se sia corretto dire che il sindaco De Magistris abbia fatto sue le lotte per la giustizia ambientale in termini di politiche. Quello che è certo è che la storia dei rifiuti ha segnato in maniera forte le ultime elezioni amministrative in città. Un intero ceto politico legato alle passate esperienze d governo è stato spazzato via. La nomina di Tommaso Sodano - un politico che ha rappresentato la più forte opposizione alle polituche dei rifiuti di Bassolino -  a vicesindaco e di Raffaele Del Giudice  - un ambientalista storico - ai vertici dell'Asia, ovvero della municipalizzata che si occupa dello smaltimento dei rifiuti, sono dei segnali che la questione rifiuti ha giocato un ruolo importante e ovviamente continuerà a giocarlo. Alcuni gruppi di attivisti napoletani si sono legati più direttamente a De Magistris, appoggiandolo in campagna elettorale; altri, invece, sono stati e sono molto più critici. In un focus group che ho fatto con un gruppo di attvisti/e di Pianura, mi dicevano che questa giunta è peggiore della precedente perché essendo percepita come "giunta amica" ha un effetto - cito le loro parole - di "calmiere sociale", smorzando le opposizioni. Con questo voglio semplicemente dire che non mi pare corretto parlare della giunta De Magistris come la giunta dei comitati; credo sia scorretto per entrambi, il sindaco e i comitati. Invece mi pare corretto dire che la vicenda dei rifiuti è una vicenda politica che ha influenzato in profondità le ultime elezioni comunali. Il mio augurio è proprio questo: che la politica ritrovi il suo ruolo in questa storia. Per quasi vent'anni ci hanno detto che era una emergenza e che andava risolta con i commissari e i poteri straordinari. Io credo invece che serve democrazia, partecipazione, ascolto. In una parola politica - quella buona, ovviamente, ma anche la tecnocrazia degli esperti può essere molto cattiva.

Mandare i rifiuti all'estero certo non è una soluzione, non credo che nessuno lo pensi. La vera domanda è: si sta usando questo tempo per costruire un piano per la gestione del ciclo della materia in città? Si stanno prendendo decisioni coraggiose sugli imballaggi, la distribuzione, i monouso ecc.? Non mi spaventano misure tampone, mi spaventa se non vengono utilizzate per costruire soluzioni di ampio respiro.

Certamente su una cosa i movimenti locali hanno ragione: l'inazione delle istituzioni; le soluzioni semplicistiche alla Berlusconi; il prezzo di tutto questo che ricade sulle loro spalle non può che generare in loro sia un sentimento di rabbia, sia la voglia di ribellarsi, sia il non credere più nelle istituzioni stesse. Tuttavia dal "basso" una cultura del no ad ogni cosa e risposte altrettanto semplicistiche - i rifiuti diventano zero se si fa la raccolta differenziata spinta... - diventano parte del problema e non della soluzione. A che punto siamo a livello di proposta?

Chi protesta è spesso indicato anche nel discorso giornalistico come "i signori del no". Gli ambientalisti sono quelli del no e si sa dire no è facile. Si tratta di un potente dispositivo (come direbbe il grande filosofo francese Foucault) retorico: dici che quelli sono i signori del no e così, come una bella etichetta, ti togli il fastidio di doverti confrontare con le loro ragioni. Perché con chi dice sempre e solo no non vale neppure la pena di parlare. Devo dire chiaramente che io non so d'accordo. Anzitutto, vorrei chiedere: ma davvero in Italia si sono detti tutti questi no? Il Vajont si è costruito su una montagna di si, le case sulle colline di Agrigento si sono costruite, il sacco di Napoli è stato fatto, in nome dello sviluppo e del lavoro si sono detti tanti si a Porto Marghera, a Manfredonia, a Taranto. Non è vero che è facile dire no. È molto difficile. Lo sanno bene i cittadini di Pianura, un quartiere alla periferia occidentale di Napoli, che per non opporsi ad una discarica che ha inghiottito per 50 anni veleni di mezza Italia hanno ricevuto promesse di strade, fognature, illuminazione pubblica e posti di lavoro. Dire no è difficile, come sanno gli operai sotto ricatto che devo scegliere tra la salute e il salario. Lo sanno quelli che si oppongono alle grandi opere, mettendosi contro quanti potrebbero trovare un lavoro attraverso quelle opere e un intero paese che li indica come coloro che frenano lo sviluppo. Persino ad Acerra, dove si è costruito l'inceneritore in Campania, dire no non è stato facile perché ci sono state le promesse di posti di lavoro e di compensazioni. Quindi, vorrei sommessamente dire che imparare a dire no, qualche volta, fa bene all'ambiente, alla salute, alla cultura politica di un Paese. In questi tempi tardo-neo-liberisti ci hanno dettato anche il vocabolario. "No" non sembra una parola adatta ai tempi. Invece io credo che no sia una parola importante del vocabolario politico. Il grande sociologo portoghese Boaventura de Sousa Santos una volta ha scritto che dire no a qualcosa è dire si a qualcosa di diverso. Ma per pensare l'alternativa devi dire no al presente. Non a caso uno dei grandi slogan del Thatcherismo era "Non ci sono alternative"; insomma, dire no è roba da utopisti che non fanno i conti con la realtà. Invece dire no significa fare i conti con la realtà, senza accettarla per forza. Sebbene io creda che sia importante dire no e che non ci sia niente di male a dire no - spesso ho fatto questo esempio: se qualcuno ti vuole stuprare devi gridare no, non c'è bisogno di proporre una alternativa allo stupro - è anche vero che questi movimenti hanno sviluppato proposte alternative. In un documentario autoprodotto "Una cosa importante da dire" uno degli attivisti di Chiaiano diceva più o meno testualmente: l'unica cosa che abbiamo chiesto è che i nostri esperti si sedessero ad un tavolo con i loro esperti per discutere delle possibili alternative; invece ci hanno mandato l'esercito. Infatti questi comitati sono diventati il crocevia di esperti che da mezzo mondo sono venuti a discutere dei problemi del piano proposto e di possibili alternative; Paul Connett e praticamente di casa in Campania. Gli attivisti campani parlano di trattamento a freddo, hanno proposto il revamping dei siti di produzione di CDR, e molte altre cose. I siti internet di questi comitati sono pieni di proposte (qui, solo per fare qualche esempio). Infine non si tratta solo di proposte ma anche di un contributo alla ricerca e alla verità. Credo che senza i comitati non si sarebbero mai messe in discussione alcune cose importanti relative ai rifiuti in Campania. In particolare, sono state le denunce dei comitati che hanno poi fatto sviluppare ricerche sui nessi tra salute, discariche, smaltimento illegale di rifiuti tossici, inceneritori. Sono stati i comitati che hanno svelato l'imbroglio del miracolo berlusconiano che aveva risolto la crisi dei rifiuti in città, semplicemente liberando Napoli e spostando i rifiuti fuori la metropoli. Sono stati i comitati che hanno denunciato i roghi che devastano l'hinterland di Napoli e Caserta ottenendo, pare, l'intervento delle autorità; infine senza i comitati non credo che la regione Campania si sarebbe data, finalmente, una legge per l'istituzione del registro tumori. Insomma dire no davvero significa dire si a qualche altra cosa. 

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