[28/11/2012] News

Doha: Africa e Stati insulari vogliono salvare protocollo di Kyoto e Clean development mechanism

Alla 18esima Conferenza delle parti dell'United Nations framework convention on climate change in corso a Doha, i negoziatori africani e dei piccoli Stati insulari hanno affermato di essere determinati a fare in modo che i Paesi industrializzati non lascino morire il Protocollo di Kyoto il 31 dicembre, quando scadrà il suo primo periodo di impegno.

Chebet Maikut, un delegato ugandese, ha detto che gli africani faranno di tutto per sventare «Il complotto dei Paesi sviluppati per  seppellire a Doha il Protocollo di Kyoto» che impegna le nazioni industrializzate e l'Unione europea a ridurre le emissioni dei 4 principali gas serra.

L'African Group e l'Alliance of small island states (Aosis) stanno facendo pressioni per rinnovare il Protocollo di Kyoto perché è l'unico trattato internazionale ce garantisce impegni di riduzione dei gas serra. Peter Odhengo, il coordinatore della Greening Kenya Initiative, denuncia: «Alcuni Paesi sviluppati stanno prendendo tempo, vogliono utilizzare la scadenza imminente come un'opportunità per porre fine a Kyoto e noi diciamo No. Canada, Russia e Giappone non sono disposti a firmare un secondo periodo di impegno, in parte perché vogliono che economie emergenti come la Cina e l'India sui impegnino per una maggiore  riduzione delle emissioni».

La segretaria esecutiva dell'Unfccc non nasconde la sua preoccupazione per uno scontro che potrebbe far rollare la pericolante architettura degli accordi e degli impegni presi a Cancun nel 2010 ed a Durban nel 2012, ed ha detto esplicitamente che «Un periodo di rinnovato impegno è urgente al fine di salvaguardare le importanti riduzioni delle emissioni e gli accounting roles che esistono nel quadro del Protocollo di Kyoto. Il Protocollo di Kyoto è l'unico accordo esistente vincolante in base al quale i Paesi sviluppati si impegnano alla riduzione dei gas serra. Sottoscrive la fiducia politica internazionale che le nazioni sviluppate rimangano responsabili nel condurre la riduzione delle emissioni». La Figueres ha ammesso che, preparando Doha nell'ultimo anno, sperava che non venisse nuovamente fuori la questione delle emissioni. Speranza un po' azzardata visto che a Doha si sta discutendo del secondo periodo di impegno di Kyoto e del sostegno finanziario e tecnico ai Paesi in via di sviluppo per adattarsi al cambiamento climatico... cioè, di emissioni.

Secondo Odhengo, i Paesi africani non molleranno perché vogliono salvare il Clean development mechanism  Onu che finanzia i progetti di riduzione delle emissioni che cesserebbe di esistere se il Protocollo di Kyoto venisse ucciso a Doha.

Ma Peter Storey, coordinatore di  Private financing advisory network, una Climate tecnology initiative Usa, ribatte abbastanza sprezzantemente: «E' senza senso che l'Africa prema per questo, visto che ha avuto  meno del 2% di tutti i progetti Cdm registrati a livello globale e che i  restanti progetti erano per lo più in Cina, India e Brasile», una cosa che agli americani non piace perché pensano che così si finanzino i Paesi emergenti loro concorrenti. Conor Barry, a capo dello stakeholder development mechanisms del segretariato Onu per il cambiamento climatico, ribatte che «In Africa i progetti Cdm sono in rapida crescita. Gli obiettivi sono cambiati: dai progetti su larga scala che si trovano facilmente in India, Cina e Brasile, ai progetti su piccola scala in Africa e nei Paesi meno sviluppati in altre regioni. Abbiamo imparato molto dal Cdm nel corso del primo periodo di impegno e pensiamo che la situazione sarà molto meglio per l'Africa, se le parti si troveranno d'accordo a Doha per un secondo periodo di impegno. In diverse aree geografiche, la segreteria sta espandendo i suoi progetti su piccola scala, compresi quelli che implicano l'uso di migliori cucine e lampade solari. Ad aprile la segreteria ha introdotto un sistema di prestiti volto a stimolare la registrazione dei progetti Cdm nei Paesi sottorappresentati. I prestiti sono concessi a progetti che hanno un'alta probabilità di registrazione, una produzione prevista di 7.500 Certified emissions reductions, o Cer,  all'anno nei Paesi meno sviluppati e di  15.000 Cer all'anno negli altri Paesi».

John Christensen, del Risoe Centre dell'Unep, ha detto all'Ips che «Queste iniziative potrebbero aumentare la quota africana dei progetti Cdm, Ma il programma European Union Emission Trading Scheme, che è il principale acquirente di Cer, a partire dal 2013 dovrebbe accettare solo carbon credits derivanti da progetti nei Paesi meno sviluppati».

E' molto meno ottimista, anzi per niente, Patrick Bond, un economista politico e direttore del centro della società civile dell'università sudafricana del KwaZulu-Natal: «Le elites continuano a screditarsi ad ogni occasione. La sola soluzione è quella di evitare queste conferenze distruttive e di evitare di dare alle élites la minima legittimità, per analizzare e creare piuttosto il movimento mondiale per la giustizia climatica e le sue alternative». 

Una visione radicale che però secondo  Bond è confermata proprio dalla scelta di Doha per la Cop 18 Unfccc sulla quale ha fatto una corrosiva disamina: «Il Qatar è un paese totalmente appropriato per la Conferenza sul clima. Per ragioni di eguaglianza di genere, di razza, di classe e di equità sociale, di ambientet, di voci della società civile e di democrazia. E' una ziona feudale ed il miglior media del mondo arabo, Al Jazeera, che ha sede Doha, non può dire la verità nel suo Paese».

Bond è non è convinto che si stia davvero cercando una governance climatica mondiale, ma non pensa che le Cop Unfccc siano lo strumento adeguato per raggiungerla: «Come ha provato il disastro di Durban (Cop17), l'idea di una gestione globale della catastrofe climatica, dato l'attuale equilibrio sfavorevole di forze, è in generale ridicola... Attualmente non c'è alcun dubbio che ogni progresso a livello multilaterale necessiterà di due cose: primo un maggiore crack dell'esperienza del commercio delle emissioni, al fine di mettere finalmente un termine alla finzione secondo la quale un mercato diretto dai banchieri internazionali può risolvere un problema di inquinamento che minaccia il pianeta, causato da mercati non regolamentati. Secondo, un divieto per le delegazioni venute da Washington: il governo Americano e le istituzioni di Bretton Woods (Fondo monetario internazionale e Banca mondiale, ndr), perché è la città più influenzata dai negazionisti climatici. Così come ogni scelta del dipartimento di Stato americano equivale ad un sabotaggio». 

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