[10/12/2012] News

Politica industriale, innovazione, fisco verde: le leve pubbliche (arrugginite) della green economy

Greenreport.it ne discute con l’economista Daniela Palma

L'ideologia del mercato come portatore sano di equilibrio - sempre e comunque - ha condotto l'Italia, il terzo paese manifatturiero d'Europa, a far muovere a tentoni la propria economia in un mondo ogni giorno più complesso e interconnesso. A fronte di difficoltà crescenti, il corpo pubblico ha progressivamente abbandonato le redini della politica industriale del paese, oggi praticamente assente, lasciandolo senza un indirizzo da seguire per uscire dal pantano della crisi. Mentre l'ultimo rapporto Censis ci aiuta dunque a dipingere un'Italia frastornata e stanca, non possiamo esimerci dal domandarci come procedere ad un'inversione di rotta. Dentro un panorma che si è ulteriormente complicato a causa della sfiducia di Berlusconi al governo Monti che ha annunciato le dimissioni scatendno la furia dei mercati...

Attorno allo stesso quesito si raccolgono le decine di promotori del Manifesto per una politica industriale in tempi di crisi fiscale, al quale viene oggi dedicato un incontro di discussione all'interno dell'università degli studi Roma Tre. In quest'occasione, Greenreport.it si accompagna a Daniela Palma, aderente al manifesto e coordinatrice dell'osservatorio Enea sull'Italia nella competizione tecnologica internazionale, per una riflessione in merito.

Il perdurare della crisi e della disoccupazione ha bruscamente svegliato il Paese dal sogno di un'economia tutta finanza e niente (o poca) industria, che si è rivelato presto un incubo. Tornando coi piedi per terra la domanda ora è: siamo ancora in tempo per (e in grado di) pianificare una politica industriale efficace?

«La questione ha una notevole complessità, nel momento in cui si guarda all'Italia. Nel nostro paese, infatti, la politica industriale è sostanzialmente assente da decenni, diversamente da quanto si riscontra nelle altre maggiori economie europee (incluso il Regno Unito, patria gloriosa del liberismo). In sua assenza si è pensato di spingere la competitività dal lato dei prezzi, in principio ricorrendo alla svalutazione, e successivamente rincorrendo la compressione dei salari. L'esito nefasto di tale processo appare oggi tanto più preoccupante, perché l'economia nazionale risulta fortemente indebolita rispetto ad un rilancio nella ipotetica ripresa del ciclo internazionale: le stesse economie emergenti stanno sempre più misurando la propria competitività sulla capacità di innovare i prodotti, e non sui prezzi, per non parlare del fatto che lo sviluppo di queste economie sta dando impulso ad un aumento dei salari, e non ad una loro diminuzione.

Insomma, è chiaro che l'Italia ha fatto e sta continuando a fare una sorta di "politica del gambero": un sistema produttivo trincerato in settori "tradizionali" e una quota decrescente dei redditi da salario non possono di certo far da traino alla crescita. Tutto questo dovrebbe diventare "senso comune" della politica, tanto per cominciare. Il ritardo accumulato dall'Italia "nell'economia della conoscenza e dell'innovazione" è consistente, e certamente non ci consente facili manovre. Ma non esistono alternative, e sarebbe un passo in avanti se almeno cambiassero i criteri guida delle politiche per lo sviluppo, attualmente centrati sulla riduzione del costo del lavoro».

La crescita economica - in sua assenza - ci si limita per lo più ad invocarla, senza neanche qualificarla.  Eppure sperare in un ritorno al business as usual appare ormai deleterio: i limiti sociale ed ambientali del vecchio modello di sviluppo ci toccano da vicino. È maturo il tempo per una politica industriale sostenibile, attenta ai flussi di materia ed energia: come valuta quanto emerso in merito dagli Stati generali della green economy?

«La "green economy" offre indubbiamente una grande opportunità di sviluppo. Ma per non prendere abbagli è necessario guardare alla cosiddetta riconversione ambientale del sistema produttivo in senso globale, collocandola in seno alle trasformazioni epocali che hanno segnato lo sviluppo economico nel suo complesso, e non come semplice "adattamento"  del sistema produttivo alle necessità della "salvaguardia ambientale".

Dico questo perché il rischio è quello di assumere un'ottica parziale nella quale si tralascia di considerare che la sostenibilità dello sviluppo non è determinata solo dall'equilibrio delle risorse naturali, ma anche da quello delle grandezze socio-economiche. Non si tratta certo di una novità, ma il dibattito attuale su questi temi tende a trascurare gli equilibri tra le risorse economiche: se una produzione "ambientalmente sostenibile" tende, ad esempio, a far aumentare le importazioni, il sistema economico nel suo complesso sarà gravato da un maggiore debito con l'estero, consumando perciò più di quanto produce. La crescita ne risulterà frenata, causando cali dell'occupazione.

E' evidente, pertanto, che quando si parla di "green jobs", di nuovo, bisognerebbe guardare all'effetto netto su tutto il sistema, che sotto il peso di un crescente vincolo estero potrebbe vedere ridotta la sua capacità di creare occupazione. Non mi sembra tuttavia che tutto ciò si dia sempre per scontato, e anche l'esito dei lavori degli Stati generali della "green economy" riflette a mio avviso la necessità di rafforzare questa imprescindibile consapevolezza».

Agire per una politica industriale sostenibile significa anche misurarsi con una riforma che sposti il carico fiscale dal lavoro al consumo di risorse: in concreto, come disegnare un fisco che incentivi la sostenibilità?

«Anche parlando di fisco, continuerei ad assumere un'ottica globale. Spostare il carico fiscale sul consumo di risorse può indurre un significativo mutamento nelle modalità di produzione, ma fino ad un certo punto. Produrre nel rispetto dell'ambiente significa introdurre una significativa quantità di innovazione (di prodotto e di processo) alla quale spesso le imprese da sole non riescono ad accedere per costi e rischi: Nicholas Stern lo ha detto molto chiaramente nel suo Rapporto del 2006 sull'Economia del cambiamento climatico.

Nelle politiche ambientali, ai "fattori di prezzo" debbono affiancarsi interventi pubblici per l'innovazione del sistema produttivo. Quanto al lavoro, e in particolare ai salari, vorrei infine aggiungere un nota: la riduzione della capacità di spesa dei salari non incentiva di certo una domanda qualificata nel rispetto dell'ambiente. Diversi studi si sono misurati in una verifica dell'esistenza delle cosiddette "curve di Kuznets ambientali" che prefigurano un degrado ambientale decrescente al crescere del reddito pro-capite oltre una certa soglia. E' evidente che la compressione dei salari ci allontana da questa dinamica virtuosa. Il fisco potrebbe in tal senso agire direttamente sulla redistribuzione del reddito, dando non solo impulso alla domanda (e dunque alla crescita del reddito e del reddito pro-capite) ma fin da subito ad un consumo di qualità».

Industria del riciclo, energie rinnovabili, cura e valorizzazione del territorio: quali risorse potrebbero essere mobilitate per incentivare questi settori da un riordino dei sussidi alle imprese, spingendo così un rilancio dell'occupazione tramite la green economy?

«Più che di un riordino dei sussidi alle imprese, parlerei di un disegno complessivo di politica industriale fatto di diverse componenti tese a correggere le insufficienze sistemiche della nostra economia, insufficienze che la rendono assolutamente impreparata a cogliere la sfida della "green economy". Alla luce di ciò che è stato detto finora, penso che sarebbe utile stilare un messaggio di sintesi nel quale si assuma la "green economy" alla stregua di un nuovo paradigma tecno-economico, proprio nel significato che ci consegna l'economista Carlotta Perez, che stimola ad una riflessione sulle conseguenze sistemiche che un processo di innovazione paradigmatico pone in essere in tutte le componenti dell'economia.

In questo disegno ogni attore è chiamato a fare la sua parte, ma è fuor di dubbio che ampio spazio deve essere lasciato ad una azione pubblica qualificata, così come d'altra parte dimostrano diverse esperienze anche nell'ambito delle economie emergenti. Quanto all'Italia è certamente importante una modifica del quadro europeo di riferimento in direzione di una maggiore agibilità delle politiche. Ma credo che sia parimenti rilevante un cambio di registro nell'ottica con cui si guarda agli interventi di politica industriale e al ruolo dell'attore pubblico, come prerequisito anche per avanzare convinte azioni politiche in sede europea».

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