[11/12/2012] News

Crescono i nuovi poveri, 'untori' della speranza

Il 28,4% delle persone residenti in Italia è a rischio di povertà o esclusione sociale

Il Bel Paese diventa sempre più triste. Il protrarsi della crisi economica ha eroso il potere d'acquisto delle famiglie italiane che, per cercare di mantenere il più possibile il proprio tenore di vita stanno raschiando il possibile dal barile dei risparmi, e contenendo le spese. Adesso il rapporto Istat Reddito e condizioni di vita (condotta su 47.800 individui) ci rammenta come in molti, troppi casi sia stata sorpassata la linea del virtuosismo, della riduzione (benché forzata) del superfluo: «Nel 2011, il 28,4% delle persone residenti in Italia è a rischio di povertà o esclusione sociale, secondo la definizione adottata nell'ambito della strategia Europa 2020», in crescita del 3,8% rispetto all'anno precedente.

Particolarmente preoccupante risulta la crescita dell'indicatore di severa deprivazione, che sale di 4,2 punti percentuali, passando dal 6,9% all'11,1%. Un pasto adeguato (cioè con proteine della carne, del pesce o equivalente vegetariano) ogni due giorni, non se lo potrebbe permettere - anche se lo volesse - il 12,3% degli italiani, quasi il doppio rispetto al 2010 (quando la percentuale era al 6,7%). Oltre i freddi numeri sono nascoste le facce di cittadini che forse, come molti altri, credevano fino a ieri di vivere nel migliore dei mondi possibili.

Quello della civile Europa, protagonista di un progresso senza limiti, che adesso scopre nel suo ventre un numero crescente di poveri. Messi da parte come affetti da una malattia contagiosa, un rischio che si allarga addirittura a livelli istituzionali: «Quando sorgono dubbi sulla stabilità di un Paese vicino a noi come l'Italia - ha dichiarato ieri il ministro dell'Economia spagnolo in riferimento all'evolversi della scena politica italiana - che è anche visto come vulnerabile, ha su di noi un effetto do contagio immediato».

Sono passati anni dall'inizio della crisi economica, ma ancora non sembra essere maturato il momento di riflettere collettivamente (meglio, politicamente) su cosa sia andato storto. Perché qualcosa, evidentemente, ha fallito. Negli anni '30 dello scorso secolo, il grande economista John Maynard Keynes presagiva che nel nostro, di secolo, sarebbero state dedicate al lavoro massimo «15 ore alla settimana», tanto il progresso tecnologico avrebbe influito sul nostro benessere. Bene, in effetti adesso molti italiani dedicano al lavoro meno tempo ancora: i disoccupati. Nella ligia Germania sono invece circa 7,5 milioni le persone che lavorano davvero 15 ore a settimana: è il caso di quei minijobs da 400€ che non possono garantire una sopravvivenza dignitosa.

Come siamo giunti a questo inaspettato quanto crudele ribaltamento di prospettiva? «La tecnologia - sottolinea oggi su la Repubblica un altro economista, lo statunitense premio Nobel Paul Krugman - ha preso una piega che colloca in netto svantaggio la manodopera» e, dall'altra parte, «le corporations usano il loro potere monopolistico in netta espansione per aumentare prezzi senza passarne gli utili ai propri dipendenti». Tristemente, però, «lo spostamento del reddito dalla forza lavoro al capitale non è ancora entrato nel nostro dibattito nazionale».

Uno dei dati chiave per capire la crisi, infatti, rimane la distribuzione della ricchezza. «La quota di reddito totale del 20% più ricco delle famiglie residenti in Italia è pari al 37,4% - si legge nel rapporto Istat - mentre al 20% più povero spetta l'8% del reddito (vedi grafico, ndr)». Di fronte al continuo ripresentarsi di simili dati dobbiamo riuscire ad ammettere che il progresso, anche in Italia, non è riuscito a mantenere fino in fondo la sua promessa. Sta facendo rapidamente marcia indietro, rimanendo ancorato ad una fetta sempre più esigua, e sempre più opulenta, di popolazione (che non potrà certo essere immune per sempre da questa tendenza). Se non riusciamo a sganciarci da questo modello di sviluppo non potremo che seguirne la sorte.

La strada alternativa è quella che pone al centro della sua riflessione la sostenibilità dello sviluppo, incastrando al contempo la dimensione economica con quella ecologica e sociale. Una delle pietre miliari di questa alternativa, il rapporto Brundtland del 1987, ci ricorda che  «Lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni». Non siamo sinora stati in grado di seguirne i propositi: «le generazioni future» non hanno mai avuto diritto di voto, né mai lo avranno.

Abbiamo sempre ritenuto, evidentemente, che offrissero un segnale troppo debole per essere seguito. Adesso scopriamo che in gioco non è soltanto lo sviluppo futuro, o di quello di nazioni geograficamente così lontane dal nostro rassicurante quartiere. Il nostro vicino, direttamente noi stessi siamo adesso "soggetti a rischio": non solo nuovi poveri, ma untori e portatori sani di speranza.

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