[05/02/2013] News

Il social-washing della Foxconn nelle fabbriche dell'iPhone

Foxconn Technology Group, il più grande assemblatore del mondo di elettronica di consumo, compreso l'iPhone di Apple, sta cercando di far entrare i sindacati nelle sue mega-fabbriche cinesi, ma il puzzo di social-washing è molto forte. La Foxconn, che impiega più di 1 milione di persone, soprattutto nella Repubblica popolare cinese, ha avuto un crollo della sua immagine e delle sue azioni a metà del 2010, dopo un'ondata di suicidi dei lavoratori e accuse sulle cattive condizioni di lavoro, orari lunghi con straordinari non pagati e bassi salari. Le sue città/fabbriche sembrano più un universo concentrazionario che un luogo di lavoro. Lo scandalo ha travolto anche la Apple, il principale cliente di Foxconn, che produce per lei a buon mercato i suoi costosi gadget elettronici, e il colosso dell'elettronica di consumo nel 2012 ha chiesto alla statunitense Fair Labor Association (Fla) di fare dei controlli nelle fabbriche dove la situazione risultava più critica.

Il "Foxconn verificatio status report" della Fla  è stato pubblicato il 21 agosto 2012 e dà conto delle verifiche iniziate a febbraio sulle condizioni di lavoro in tre fabbriche di proprietà e gestite dalla Hon Hai Precision Industry Co., Ltd. (Foxconn) a Shenzhen e Chengdu. 

Il 28 marzo 2012, la Fla ha pubblicato rapporti dettagliati su ciascuna fabbrica con precise raccomandazioni per giungere ad un effettivo  «Miglioramento delle condizioni per i lavoratori, e ad un piano di bonifica completo preparata da Apple e Foxconn per risolvere i problemi rilevati durante la valutazione Fla». Ne è nato un piano di azioni correttive con la descrizione delle misure da adottare ed i tempi in cui realizzarle completamente: 15 mesi, dal  primo aprile 2012, fino al primo luglio 2013, con scadenze precise per i primi 3 mesi. Foxconn, seguendo le raccomandazioni del rapporto Fla, ha aumentato i salari ed ha migliorato i servizi nei suoi impianti.

Ma evidentemente la questione non è solo normativo/salariale bensì anche di rappresentanza/democrazia dei lavoratori, due cose che sia nella Taiwan ipercapitalista che nel singolare capitalismo di Stato cinese sono cosa molto rara. Infatti Foxconn il 4 febbraio ha annunciato l'aumento del numero dei rappresentanti dei lavoratori più giovani nei comitati del sindacato che rappresenta i lavoratori, assicurando che il management non si occuperà del processo elettorale, il che vuol dire che imprenditori, Partito comunista e sindacato ufficiale non si metteranno d'accordo su chi deve rappresentare i lavoratori. In una nota dell'azienda si legge: «Come parte degli sforzi per l'attuazione del piano d'azione che è stato sviluppato in collaborazione con Fair Labor Association, Foxconn introduce misure volte a rafforzare la rappresentanza dei lavoratori nella Foxconn Labor Union e per coinvolgere i dipendenti nell'organizzazione».  Rispondendo alle domande del Financial Times, Foxconn ha spiegato: «La posizione del presidente e dei 20 membri del Foxconn Federation of Labour Unions Committee sarà determinata mediante elezioni una volta ogni 5 anni attraverso un procedimento elettorale con voto segreto».

Dopo la festa del Nuovo Anno Lunare, Foxconn, con l'aiuto della Fla, inizierà la formazione dei suoi lavoratori cinesi per far loro votare i rappresentanti sindacali che saranno scelti da circa 18.000 comitati sindacali il cui mandato scade quest'anno e nel 2014. Dal momento che i sindacati ufficiali finora non hanno avuto alcun ruolo nell'organizzare le proteste dei lavoratori e sono complici della direzione della Foxconn, la maggior parte dei giovani lavoratori non sa nulla di cosa sia e di cosa dovrebbe fare un vero sindacato.  .

La Foxconn dice che già ora il 70% dei 188 sindacalisti eletti nella sua fabbrica di Shenzhen sono lavoratori veri, ma chi conosce bene la situazione dice che in realtà quei lavoratori hanno poca o nessuna influenza sui comitati che gestiscono il sindacato e più della metà sono uomini della direzione aziendale. La  presidente del sindacato Foxconn in Cina, Chen Peng, è l'ex capo dell'ufficio di Terry Gou, fondatore e amministratore delegato della compagna di Taiwan. La Peng, che usa il nome inglese Peggy, viene descritta da chi la conosce come una confidente di Gou ed una fidata esponente del management team della Foxconn in Cina.

Insomma, quella che in Italia da altri prestigiosi giornali viene oggi presentata come un'apertura al libero sindacalismo in realtà è l'entrata di qualche giovane nel sindacato "giallo" aziendale.

Infatti, anche diversi analisti del lavoro citati dalla Reuters dicono che, mentre gli ultimi piani mostrano la volontà della Foxconn di coinvolgere i suoi lavoratori, questo non significa un vero cambiamento, dato che la chiave di tutto è come i rappresentanti sindacali vengono scelti. Wang Jing, preside del dipartimento relazioni del lavoro alla Capital University of economics and Buisiness di Pechino, spiega: «Solo facendo in modo che  lavoratori scelgano da soli i propri candidati e poi li votino, si possono   esprimere appieno le speranze dei lavoratori» Per Wan comunque è già un passo avanti: «Dimostra che l'azienda vuole migliorare le sue relazioni con i lavoratori. E' probabilmente stata la Apple a premere sulla Foxconn per attuare il cambiamento, per tutelare l'immagine del suo brand».

Se a Foxconn è scoppiata la protesta e la disperazione si è trasformata in suicidio, nella Cina comunista che avrebbe dovuto liberare i lavoratori dallo sfruttamento, in molte fabbriche e luoghi di lavoro le condizioni di gran lunga peggiori, ma la company taiwanese ha avuto la "sfortuna" di avere  clienti come Apple, Dell, Hewlett-Packard, Sony e Nintendo che hanno attratto l'attenzione dell'opinione pubblica occidentale.

Secondo il Financial Times la decisione della Foxconn potrebbe rappresentare una svolta: «Questa  sarebbe la prima decisine del genere in una grande azienda in Cina, dove i sindacati sono stati tradizionalmente controllati dalla direzione aziendale e dalle amministrazioni locali. Foxconn è il più grande datore di lavoro del settore privato del paese con 1,2 milioni di lavoratori sul continente».

Anche per il Sole 24 Ore «Sindacati non ufficiali, cioè relativamente indipendenti da quelli rigidamente organizzati dallo Stato, potranno muoversi nell'azienda e saranno scelti direttamente dai dipendenti. Questo non dovrebbe avere un grande impatto immediato sul costo del lavoro, aumentato negli ultimi tre anni di oltre il 30%. Potrebbe però avere subito un impatto importante nella vita dell'azienda».

Ma lo scetticismo che la svolta sindacale della Foxconn possa portare ad un reale cambiamento è giustificato, dato che i sindacati indipendenti sono tecnicamente proibiti in Cina. Inoltre, anche altri giganti del commercio globalizzato mondiale come Reebok, Walmart Store, ed Honda Motor  avevano promosso "sindacati liberi" all'interno delle loro imprese cinesi, ma gli "esperimenti" hanno semplicemente trasformato il sindacato "rosso" ufficiale ligio al potere comunista in un sindacato aziendale "giallo" ligio agli interessi della mutazionale di turno.

Come ha spiegato alla Reuters Anita Chan, del China research centre, dell'university of technology di Sydney, «Foxconn non è la prima azienda in Cina che ha cercato di realizzare  elezioni "democratiche". Tutti hanno avuto un sacco di attenzione internazionale, al momento delle elezioni sindacali, ma tutto si è poi risolto in nulla. Tutto pubbliche relazioni. La Federazione unitaria dei sindacati cinesi (Quánguó Zǒnggōng  Huì - All-China Federation of Trade Unions) è ossessionata dal sostenere la stabilità del Partito Comunista, scoraggia l'attivismo dei lavoratori e, in generale, le controversie di lavoro con le direzioni aziendali».

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