[03/07/2008] Comunicati

Tav, movimenti e partecipazione (e accordi?)

ROMA. Dunque c’è una strada diversa per governare i conflitti ambientali, da quella dei manganelli e del decisionismo autoritario ed inconcludente che da più parti si invoca. E’ quella emersa in Val di Susa, nella vicenda della Tav, dove, grazie alla forza e all’ampiezza del movimento che lì si è sviluppato, è prevalso il confronto con le popolazioni e i sindaci della valle. Non ho letto il testo di ciò che è stato approvato dall’osservatorio (il tavolo negoziale a cui è stata affidato il compito di trovare una soluzione) né è mio compito entrarvi nel merito. Il giudizio spetta prioritariamente alle popolazioni di quei territori. Mi attengo a ciò che ha dichiarato il presidente della comunità montana dell’alta Val di Susa, Antonio Ferrentino, smorzando non poco gli entusiasmi iniziali: per ora fra le parti c’è esclusivamente un accordo sul metodo da seguire.

Al di là del merito penso però si tratti di un risultato molto importante, ricco di indicazioni su come costruire i conflitti ambientali sul territorio a cominciare da quello sul nucleare. Sarebbe un errore sottovalutare l’importanza e il valore strategico dell’intesa raggiunta, soprattutto per il contesto politico nel quale si cala. C’è, infatti, un tentativo molto insidioso, da parte del governo e dei poteri forti, di far diventare senso comune di larghi strati della popolazione la tesi autoritaria del decisionismo e della governabilità, quella secondo cui la partecipazione, il conflitto sociale, la democrazia determinerebbero un sovrappiù di domande rispetto alle risposte che il sistema può fornire e si propone quindi di superare la contraddizione abbattendo la domanda sociale, attraverso un secco ridimensionamento delle forme della democrazia.

E’ questo il retroterra culturale da cui prendono le mosse decisioni come quelle che trasformano una discarica in un impianto militare, da far presidiare dall’esercito in armi, o di apporre il segreto di stato sulle centrali nucleari e a carbone da costruire o infine di punire con il carcere qualsiasi dissenso. Il significato strategico e l’importanza dell’intesa raggiunta consiste proprio nell’affermare un metodo che contraddice il progetto autoritario e repressivo con cui si vuole gestire i conflitti sul territorio. Un metodo che ha permesso di mettere a confronto priorità e progetti alternativi. Non solo.

Per la prima volta in un conflitto ambientale il movimento ottiene di essere riconosciuto e strappa un tavolo che ha permesso di azzerare progetti già decisi e per i quali erano già state effettuate le gare di appalto.

E’ mia convinzione che questa intesa fornisca molti spunti di riflessione e fa capire quali caratteristiche debba avere un movimento per riuscire ad imporsi ed uscire dalla pura testimonianza. Sicuramente fornisce indicazioni utili ai numerosi conflitti territoriali ed ambientali aperti, a cominciare da quello sui rifiuti in Campania, ma anche a quelli ancora da aprire come quello sul nucleare. Indica che una lotta non la si può aprire e poi non chiudere più fino all’alba dorata della rivoluzione. Perché fra l’oggi e il domani ci sono di mezzo i poteri forti, la repressione, la contraddittorietà delle nostre esistenze. Un conflitto lo devi dunque aprire e poi chiudere e poi riaprire ancora, ma ogni volta essendo più forte, quantitativamente più pesante, qualitativamente più efficace, sapendo che il momento più delicato è quello della chiusura, dove può saltare l’unità e il rapporto con la base attiva.
Non so quanto siano condivise queste considerazioni, ma sarebbe utile che su di esse, si aprisse un confronto franco e non diplomatico.

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