[03/07/2008] Comunicati

La ricerca scientifica sempre più schiava del mercato

LIVORNO. Non è certo un bel biglietto da visita per il mondo della ricerca quello che emerge dallo Office of Research Integrità, l’istituto americano che si occupa di monitorare le frodi scientifiche. Secondo questo studio tra il 2002 e il 2005 sarebbero stati ben 2300 (su 212mila) i ricercatori che pur di trovare spazio per una pubblicazione su una rivista scientifica e fondi per portare avanti i propri lavori, avrebbero contraffatto i risultati. Si potrà dire che non si può fare di tutta l’erba un fascio e che casi sporadici non possono e non devono scalfire l’immagine della ricerca scientifica che a livello internazionale offre risultati degni di tutto il rispetto.

Un dato come quello pubblicato dall’Istituto americano pone però una riflessione sul sistema della ricerca, che almeno nel nostro paese non gode certo delle dovute attenzioni.

O almeno per quanto riguarda la ricerca pubblica, che ha visto nelle ultime legislature, governi sia di destra che di sinistra , impegnati più a ridurre le risorse destinate a questo campo che non il riallineamento con gli standard europei. La spesa per la ricerca pubblica in Italia con l’1,07% del Pil è infatti tra le più basse nei paesi dell’area Ocse e molto sotto alla media europea.

Una realtà che porta nei fatti a creare una triste competitività tra le sedi universitarie e gli enti pubblici di ricerca per avere la possibilità di accesso ai fondi. Non contraffazione quindi dei risultati ma di fatto uno stato di continua concorrenza per garantirsi la sopravvivenza.

Non è un caso allora l’iniziativa dei rettori di dodici atenei di costituire un’associazione per la qualità delle università italiane statali. Lo scopo dell’associazione, del tutto meritevole, di migliorare la reputazione internazionale degli atenei pubblici, promuovere la qualità di formazione, ricerca scientifica e organizzazione, proporre strategie per la definizione di obiettivi e programmi comuni con parlamento e governo, nasconde tuttavia un obiettivo altro che è quello di fare in modo che le università che fanno parte dell’associazione, chiedono più risorse in cambio di una maggiore qualità che sarebbe autocertificata dalle stesse università.

Come il fatto che le università dotate di autonomia siano nei fatti sempre più legate(per necessità) a svolgere un ruolo di supporto alla ricerca delle imprese, che sono nei fatti interessate a certe ricerche mirate al loro settore e non tanto ad una ricerca a tutto campo.

Le nostre imprese, ovvio, fanno infatti ricerca in modo mirato, tanto quanto serve per sviluppare idee di prodotto e quindi per incentivare i propri utili. Poco a che vedere (spesso) con innovazione tecnologica finalizzata alla sostenibilità e legata a ridurre flussi di materia e di energia, ad esempio. E poco anche a sviluppare tecnologie che potrebbero avere, comunque, un ruolo utile sul versante della salvaguardia ambientale.

La ricerca è quindi indirizzata quasi esclusivamente sull’innovazione di prodotto (moda, design, tendenza, bellezza effimera) e quasi mai sull’innovazione di processo legata a doppio filo con lo sviluppo sostenibile. Perché è da lì che arrivano i principali finanziamenti dato che quelli pubblici devono essere spartiti mettendo in atto processi di competizione tra gli enti preposti..

Una sana dinamica di competizione e la rivendicazione della propria autonomia non sono certo fattori da condannare nella ricerca ma la logica (molto liberista) di lasciare andare la ricerca dove vogliono i professori e le imprese, andrebbe però completata da una maggiore attenzione a quello che risulta essere indubitabilmente il primo interesse collettivo. Ovvero, orientando quindi la ricerca, quella pubblica, verso la sostenibilità.

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