[06/03/2009] Energia

Reportage esclusivo dalla centrale nucleare di Saint Laurent des Eaux

dal nostro inviato
SAINT LAURENT DES EAUX (Francia). L’Italia vuole tornare al nucleare con centrali francesi: noi ne abbiamo visitata una.
Non una centrale con reattori Epr di terza generazione come quella che è in costruzione a Flamanville ma una di seconda generazione, sempre però del tipo ad acqua pressurizzata (Per). In questi reattori l’acqua che produce il vapore di alimentazione delle turbine non bolle direttamente nel reattore, ma in un generatore di vapore che assume il calore dell’acqua che si trova nel reattore. Una tecnologia che si trova ormai in ognuno dei 58 reattori che compongono il parco elettrico nucleare francese e che differisce dagli Epr solo per una questione di maggiore efficienza e sicurezza.

Di seconda generazione ad acqua pressurizzata sono quindi i due reattori, da 900 MW ognuno, della centrale di Saint Laurent des Eaux , meta della nostra visita, che sorge su di un isola artificiale sulla Loira, a pochi chilometri dal castello di Chambord.
I due reattori attualmente in funzione hanno sostituito i più vecchi di prima generazione, del tipo Ungg (uranio gas grafite), ora in decostruzione; spenti tra il 1990 e 1992 sostanzialmente per motivi economici, oltre che gestionali. I reattori di tipo Ungg richiedevano infatti approvvigionamenti frequenti del reattore con barre di uranio e di grafite (come elemento di moderazione), con notevoli costi di combustibile e di gestione per gli uomini impiegati, per la sicurezza, oltre all’alta quantità di scorie generate.

Problemi in parte risolti con i reattori attualmente in funzione a Saint Laurent des Eaux che richiedono approvvigionamenti meno frequenti (ogni 12 o 18 mesi), quindi minori quantità di combustibile e soprattutto che hanno la capacità di utilizzare il Mox (ovvero il mixed oil fuel) che è una miscela di uranio e plutonio ricavata dalla rigenerazione di parte del combustibile irraggiato.

I costi non si riducono certo in sicurezza, che è anzi uno dei settori che dopo l’incidente di Chernobyl è stato fortemente incrementato assieme a un mutato atteggiamento nei confronti della popolazione, assai più consapevole dei rischi che la presenza di una centrale nucleare può rappresentare. E sulla sicurezza a Saint Laurent des Eaux non si lesina: dichiarata come priorità assoluta della centrale, che la definisce un’esigenza permanente per tutti e la presenta come elemento di cultura aziendale, si basa su un pilastro strutturale (tre barriere rappresentate da una guaina del combustibile, un circuito primario e un recinto di confinamento attorno al reattore) e su una continua formazione di tutti gli operatori che vi dedicano (ognuno dei 634 addetti) 85 ore all’anno della loro attività in centrale.

Un’attività, quella della sicurezza, fortemente regolamentata e controllata dall’Autorità nazionale preposta, che fa visite alla centrale notte e giorno, programmate e a sorpresa, che prevede un piano di intervento interno e uno esterno rivolto alla popolazione, che viene chiamata per questo ad esercitazioni periodiche e ad una mobilitazione generale ogni tre anni.
Perché, come dicono alla centrale, «la probabilità di incidenti e di accidenti (che in francese hanno valore diverso) è estremamente bassa, non può però essere esclusa».

E sulla sicurezza si spendono un bel po’ di risorse: 1 miliardo e mezzo di euro all’anno per l’intero parco nucleare francese, suddivisi in tre tranche uguali destinate alle operazioni correnti, al rinnovamento delle parti strutturali, al miglioramento del sistema.

Sulla sicurezza non si transige nemmeno nelle operazioni giornaliere e men che meno quando queste operazioni riguardano la ricarica del nocciolo con nuovo combustibile dopo che è stato rimosso quello già irraggiato. Operazioni che si stanno preparando a svolgere proprio in questi giorni a Saint Laurent des Eaux e che è stato possibile seguire addentrandosi sino alla sala delle piscine, dove avviene il caricamento delle barre che contengono le pastiglie di uranio, che arrivano già pronte dal centro di assemblaggio di Le Hague. Operazioni che richiedono grande professionalità e controlli e che costringono gli addetti (e non solo i visitatori) a precauzioni lunghe e laboriose che prevedono passaggi da infinite barriere con codici personali e segreti, vestimenti e svestimenti, continuo monitoraggio delle radiazioni eventualmente assorbite dagli indumenti e poi dal corpo per sottoporsi, eventualmente, a decontaminazioni relative. E se per i visitatori si tratta di una tantum per chi ci lavora significa doverlo fare (per la propria e per l’altrui sicurezza) ad ogni turno.

Altra priorità, imposta da leggi locali e nazionali, riguarda il sistema dei controlli ambientali, oggetto di una doppia sorveglianza interna ed esterna, da parte dei laboratori della centrale e dei servizi del ministero della sanità e dell’industria. A questo segue un programma di sorveglianza indipendente da parte dell’Autorità di sicurezza nazionale. Controlli suppletivi possono essere richiesti (e devono pertanto essere effettuati) da parte dalle commissioni locali d’informazione, obbligatorie su ogni territorio sede di centrale.

Questo significa 8000 prelievi, analisi e misure ogni anno: su effluenti gassosi, sull’acqua superficiale e di falda, sul suolo, sui pascoli e sui prodotti di derivazione animale per un doppio raggio di 5 e 10 chilometri attorno alla centrale. Ogni mese poi deve essere misurato il livello di radioattività delle acque della Loira, dove avviene il rilascio delle acque di raffreddamento, una volta depurate attraverso sistemi di filtraggio.

La valutazione dei risultati e dei controlli è di specifica competenza dell’Autorità di sicurezza nucleare, che ha il compito di stabilire se sono rispettati i parametri di sicurezza, il rispetto delle norme di radioprotezione per i lavoratori e per la popolazione, il rispetto degli standard ambientali e che, ogni dieci anni, è deputata a rilasciare (se ritiene che vi siano le condizioni) una nuova autorizzazione alle centrali in esercizio. Un autorità che è divenuta indipendente con una legge del 2006 e che vigila che siano rispettate anche le istanze di trasparenza sull’informazione.

A fianco dei due reattori funzionanti che producono con una potenza di 1800 MW il 2,5% dell’energia elettrica di tutta la Francia e il 75% del fabbisogno della regione centrale, riconoscendole anche 20 milioni di euro all’anno di tributi come compensazione per l’ospitalità, ve ne sono altri due in decostruzione che rappresentano la vecchia storia del sito di Saint Laurent des Eaux; un’attività che impiega altra mano d’opera qualificata e che porta il numero degli occupati direttamente e indirettamente sul sito della centrale (compresi quelli impiegati nei periodi degli arresti programmati) a circa 1200, altro motivo di buona accoglienza da parte del territorio.

Il capitolo delle scorie, rimane anche per l’efficiente Sain Larent des eaux, al pari di tutte le altri centrali nucleari del parco francese, un problema ancora del tutto aperto. Nonostante il centro di Le Hague, che ospita in attesa di un deposito definitivo le scorie ad alta attività e a lunga vita (oltre a riprocessare il combustibile irraggiato), nonostante un sito sperimentale per studiare il deposito geologico che ha come orizzonte temporale, per dare un responso, il 2025, nonostante tutto il resto delle scorie a bassa attività e a vita breve sia affidato all’Agenzia nazionale per la gestione delle scorie, il problema è ancora irrisolto, come nel resto dei paesi che sfruttano energia atomica.
Come è altrettanto aperto il tema su chi questi siti e la loro gestione dovrà pagare.

Una esperienza unica per chi non fa parte dell’entourage, che aiuta molto a comprendere le difficoltà di gestione e che fa anche apprezzare gli sforzi per migliorare sempre di più le performance di efficienza, di sicurezza, di trasparenza, di informazione, di ricerca, di controllo, di garanzia pubblica che devono essere garantite da un sistema che sfrutta questo tipo di risorsa energetica.

Ma sono anche questi aspetti (ma non certo solo questi) che portano a riformulare la domanda se valga la pena investire tutte queste risorse economiche e umane, per mantenere e implementare un sistema di produzione energetica che necessita che - comunque - tutto questo sforzo rimanga in piedi a garanzia di sicurezza. E se non valga invece la pena impiegare queste risorse (economiche ed umane) per implementare altri sistemi di produzione e di efficienza energetica.

Ma viene anche da chiedersi (e qui sta la preoccupazione) se un paese come il nostro, in cui non si riesce neanche a garantire l’incolumità dei figli che vanno a scuola per un sistema di strutture scolastiche fatiscenti quale quello che abbiamo e in cui si fa fatica a sapere (per puro esempio) anche quali sono i livelli di inquinamento atmosferico delle città dove viviamo, saprebbe essere all’altezza di svolgere un ruolo - anche lontanamente – paragonabile a quello adottato in Francia.

La risposta è, purtroppo, piuttosto scontata e sconsolante.

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