Urban farming, un modello urbano da esportare?

Un viaggio nella Londra nascosta, dove l'agricoltura sfida i grattacieli con una filosofia di resistenza e autoproduzione e sostenibilità

[18 Giugno 2018]

Nella megapololi occidentale della finanza e delle sperimentazioni più incredibili, negli ultimi anni ha trovato anche spazio una nuova pratica: a Londra il panorama cittadino sta mutando. Abbiamo sempre più giardini che crescono su tetti, apicoltori che seminano qua e là le arnie e producono miele a buon prezzo, ma la cosa più sorprendente è stata trovare delle vere e proprie aree agricole mischiate nel gran caos di un luogo come la capitale del Regno Unito. Basandosi su una filosofia di resistenza e autoproduzione e sostenibilità molte persone si sono unite sotto questa bandiera per creare, non solo un passatempo, ma una sacca di resistenza all’espansione urbana.

La ricerca dell’urban farming parte dalla necessità di creare spazi verde di attacco, risultanti da azioni più precisamente definite di guerrilla gardening. Tuttavia, questo modus operandi non appartiene a chi fa della riconnessione con la natura un atto estemporaneo, ma una vera e propria abitudine. L’appuntamento con la terra è giornaliero.

C’è sempre molto da fare mi spiega Ida, italo-britannica che gestisce il campo di Castle climbing. Un luogo dall’incredibile impatto visivo. Nell’est di Londra ti trovi improvvisamente di fronte ad un castello e sfilando all’interno di esso scopri che altro non è che un centro di addestramento per la scalata. Tutto intorno, come una volta, campi. In sostanza cosa è cambiato? Che oggi siamo nel 2018 e che all’interno di un castello ci sono sportivi e non reali: «L’area agricola – precisa Ida – è aperta a tutti. Periodicamente si tengono corsi pratici e teorici di sensibilizzazione alla natura. La maggior parte di noi ha una conoscenza profonda della natura. Siamo o laureati, prendi me che sono agronoma, o con ampia esperienza nel settore: altri gestiscono da quasi dieci anni, ma anche di più, diverse situazioni simili a questa». Alla domanda “perché lo fate” Ida risponde che «per noi è spontaneo dover ripensare il contatto con la natura. Magari per altri non lo è, e che il desiderio di sapere esattamente cosa mangi può venire da altre motivazioni. Sicuramente chi è qui lo fa perché vuole veder crescere il cibo con le proprie mani. Una volta venne una mamma e mi disse “lo sa, mio figlio non sa che il cibo nei supermercati cresce nella terra, lui pensava lo producessero direttamente li, magari in una parte nascosta agli occhi dei clienti e che ogni mattina venisse posto sugli scaffali”. Poi l’ha portato qua, e ora questa signora coltiva con il suo bambino un appezzamento di terra, certo piccolo, ma il loro».

Mi sposto in tutt’altro territorio. A Brixton, quartiere di Londra celebre per la musica, c’è un’area che è un colpo d’occhio non indifferente. Dall’estero sembra un fortino, costruito con numerosi container: Pop-up Brixton è un centro indipendente. All’interno presenta diverse aree. C’è una piazzetta, intorno alla quale sono sorti negli anni piccoli ristoranti, chioschi per lo street food, rivenditori di abiti, un piccolo centro sportivo e un orto di modeste dimensioni organizzato all’interno di una serra. Le varietà che crescono qui sono incredibili e quando è il loro tempo, le piante supportano l’approvvigionamento ai piccoli ristoranti alimentando così una piccola economia locale.

Vado altrove, nel profondo est di Londra. Lì si trova invece un’altra comunità, alle prese anch’essa con la natura e la città ma che conduce la sua resistenza in modo del tutto diverso e unico. Core landscape è un gruppo di volontari che seguono la filosofia dell’occupazione temporanea dello spazio urbano, e per fare ciò hanno pensato di trasferire i loro orti in supporti mobili. Grandi e piccole casse, contenitori di ogni tipo usati come incubatori per la vendita di piante da frutto etc. Mi spiegano John e Nemone che la loro esistenza è legata a terreni edili non sfruttati. Si spostano ogni qual volta il proprietario del terreno da loro occupato riesce a venderlo a qualche ditta costruttrice: «La gentrificazione è dietro l’angolo, non sappiamo perché questa pratica continua in maniera così insistente, cioè, in realtà sì, però è illogico. Siamo a Londra, una casa costa tantissimo, chi ne è padrone deve ritenersi fortunato. Il mercato degli immobili qui fluttua molto. Questa zona un anno fa era più bella e naturale, il Tamigi scorreva; adesso hanno stretto tutti gli spazi, chiuso tutti i buchi e innalzato palazzoni che nessuno riesce a permettersi. Una casa qui costa troppo, troppo per tutti. Con i flussi migratori costanti che abbiamo, le persone meno abbienti arrivano in massa, ma non possono permettersi di spendere così tanti soli e vanno così ad occupare i soliti edifici: villette, palazzine etc. La Brexit spaventa chi ha davvero potere d’acquisto, per cui tutto questo che vedi è destinato a rimanere così».

John mi spiega che tutta l’area intorno usa questa zona temporaneamente occupata per gestire il loro piccolo appezzamento. Ogni condomino – e indica i palazzi intorno e non del tutto abitati – scende qui, si prende cura del suo orto, controlla se ci sia qualcosa da fare.

«Abbiamo avuto ordine di sfratto – aggiunge alla fine Nemone – Abbiamo un paio di mesi per levare le tende, abbiamo individuato un’area a White Chapel che farebbe al caso nostro e siamo in attesa. Intanto tra spostamenti e altro continuiamo a coltivare e vendere le piante che riusciamo, ma non siamo in grado di portarle tutte con noi. Dove andremo non sarà così grande».

Saluto Nemone e John e torno nella mia casetta a ovest di Londra pensando che in realtà ogni villetta potrebbe avere il suo spazio verde convertito in suolo agricolo. Forse quando la sensibilità delle amministrazioni arriverà a considerare questa come una piccola ma concreta soluzione allo stile di vita esasperante di oggi, allora vedremo città diverse, più verdi, che non hanno nulla a che fare con i palazzoni di Milano addobbati di verde. Lasceremo la terra a terra e non la sposteremo al ventesimo piano poggiato su chissà quante tonnellate di cemento e ferro.

di Emanuele Gaudioso per greenreport.it