Aree protette italiane: razionalizzazione incipiente o deriva permanente? Una risposta a Enzo Valbonesi

[7 Gennaio 2016]

Il lungo articolo di Enzo Valbonesi comparso il 30 dicembre su “greenreport” rappresenta una replica – a tratti quasi punto per punto – a un mio ancor più ampio e articolato saggio-denuncia apparso su “eddyburg” il 14 dicembre alla cui lettura non posso che rimandare.

Valbonesi è figura storica e di prestigio indiscusso nel mondo delle aree protette italiane e le sue osservazioni meritano quindi una seria e argomentata replica. Egli invita in apertura a “riaccendere il dibattito” sulle aree protette e io intendo prenderlo in parola chiedendogli sin d’ora di perdonare la schiettezza di qualche passaggio. Il dibattito non ha peraltro particolare bisogno di essere riacceso perché nel corso degli ultimi cinque anni esso è divampato furiosamente in molte sedi senza peraltro riuscire minimamente a influenzare l’impostazione dei “riformatori” della legge quadro sulle aree protette, impostazione che è rimasta infatti sempre la medesima. Il testo di “riforma” della 394 è riuscito anzi a passare, nel cambio di legislatura del 2013 da un proponente del partito di Berlusconi (Antonio D’Alì) a un relatore del Partito Democratico (Massimo Caleo) senza subire alterazioni realmente sostanziali, a testimonianza di una convergenza bipartisan indifferente a qualsivoglia suggerimento di modifica o osservazione critica.

A dare la misura del livello di scontro creatosi al riguardo sta, come ho già avuto modo di notare su “eddyburg”, l’ormai leggendario scambio di stoccate di fine 2011 tra associazioni ambientaliste (Fondo per l’ambiente italiano, Italia Nostra, Mountain Wilderness, Lega per la protezione degli uccelli e Wwf da un lato, Legambiente e Federparchi dall’altro) nel quale gli “innovatori” sono arrivati a dare delle “giovani marmotte”, portatrici di un “ambientalismo alla Disney”, a coloro che criticavano nel merito la “riforma”. Lo scontro è proseguito in questa legislatura – anche se Legambiente sembra essersi defilata – e oggi si concentra su quello che dovrebbe essere il testo unificato di tre disegni di legge, ma che in realtà non prende in alcuna considerazione le correzioni apportate dal ddl De Petris ad alcuni degli errori più gravi contenuti nell’originario ddl D’Alì e nel ddl Caleo.

Tutto l’intervento di Valbonesi – ma ci tornerò in chiusura, perché è un punto assai ricco di implicazioni – ruota attorno alla parola chiave dell’“innovazione”: per poter difendere le nostre aree protette sarebbe infatti fondamentale “innovare” e la “riforma” D’Alì/Caleo, quale emerge dal testo unificato, è in questo senso sicuramente la “cosa giusta”, una proposta cioè che cambia le cose giuste nel modo giusto.

Sono anni al contrario che la più gran parte dell’associazionismo ambientalista, delle personalità del mondo della cultura e degli esperti insiste sul fatto che i punti salienti della proposta sono sbagliati – e anche su questo tornerò – ma è altrettanto interessante osservare come la “riforma” D’Alì/Caleo ignora completamente i problemi fondamentali in cui si dibattono oggi le aree protette italiane. In un volume collettivo edito dal Gruppo di San Rossore freschissimo di stampa (Cosa urge per i parchi, Pisa, ETS, 2016), ad esempio, l’ex direttore del Parco nazionale della Maiella Nicola Cimini indica in modo analitico molti di questi problemi, soprattutto in campo gestionale, e fa proposte precise e concrete per avviarli a soluzione. Ebbene: è opera assai ardua trovare qualche punto di contatto tra queste proposte, che vengono da una lunga e sofferta esperienza di gestione di parchi nazionali, e il testo difeso da Federparchi.

Valbonesi inoltre, e a mio avviso in modo del tutto corretto, osserva come uno dei problemi principali delle aree protette italiane non è una pretesa mancata applicazione della legge quadro del 1991 ma sono piuttosto le mutilazioni che essa ha subito proprio negli anni immediatamente successivi alla sua approvazione. L’abrogazione del comitato paritetico stato-regioni e quella del programma triennale nazionale delle aree protette hanno ad esempio vanificato la possibilità di creare un “sistema nazionale delle aree protette” e nella stessa direzione sono andate l’abrogazione del Comitato e della Consulta tecnica per le aree naturali protette e la mancata realizzazione della Carta della natura. Sono in questo modo saltati alcuni capisaldi cruciali per un’efficace politica nazionale delle aree protette e la deriva attuale è anche figlia di queste sciagurate decisioni. Una riforma veramente innovativa e attenta alle esigenze delle aree protette italiane dovrebbe necessariamente prevedere la reintroduzione di una visione e di strumenti di questo genere ma anche in questo caso è impossibile trovare traccia di tutto ciò nella “riforma” D’Alì/Caleo che oltre tutto sul programma triennale compie un pasticcio: si dimentica che il programma è stato soppresso nel 1998 dal decreto legislativo 112 (se lo era invece ricordato, inascoltato, il ddl De Petris) e invece lo introduce per le aree protette marine.  E per spingersi ancora oltre si può osservare come le più importanti esigenze segnalate da tempo dallo stesso Valbonesi (strategia nazionale per la conservazione della biodiversità, armonizzazione con le strategie comunitarie e mondiali) non hanno alcun riscontro nel testo unificato in discussione in Parlamento (mentre anch’esse erano presenti nel ddl De Petris).

Insomma, la “riforma” D’Alì/Caleo è un testo che si segnala molto più per i problemi importanti su cui non ha nulla da dire e non dice nulla che per quelli che pretende di affrontare e che di conseguenza si può definire innovativa solo con una grande dose di immaginazione e di affetto.

I contenuti della “riforma” D’Alì/Caleo si riducono infatti ad alcuni interventi che se non vanno al cuore dei problemi attuali dei parchi introducono però rilevanti stravolgimenti alla filosofia, al funzionamento e al ruolo delle aree protette. Su tutto questo concorda la quasi totalità delle associazioni ambientaliste che in questi anni hanno più volte prodotto documenti e appelli  – anche recenti – caratterizzati da una decisa e argomentata contrarietà, ma concordano anche autorevoli esperti che come abbiamo già visto hanno prodotto preziose analisi di dettaglio.

Valbonesi si sofferma velocemente su quattro aspetti-chiave della proposta di legge che sono al tempo stesso tra quelli più aspramente criticati. Ed è qui che vale dunque la pena di seguirlo passo per passo. I lettori di “greenreport” hanno già una buona conoscenza di questa materia perché è stata trattata più volte sulle sue colonne da figure autorevoli come Renzo Moschini e Carlo Alberto Graziani ma da un lato è sempre vero che repetita iuvant e dall’altro è forse possibile approfittare dell’occasione per aggiungere qualche riflessione in più, sintetizzando alcune argomentazioni già esposte in modo più approfondito in “eddyburg”.

In primo luogo la “riforma” attribuisce un ruolo abnorme a una associazione privata e squisitamente volontaria come Federparchi stabilendo che essa è titolare niente di meno che della “rappresentanza istituzionale in via generale degli enti di gestione delle aree protette”. In cambio, tale associazione si impegna graziosamente a non escludere nessuna area protetta che intenda aderirvi. Dietro questo anomalo riconoscimento si intravede facilmente la rinuncia definitiva alla creazione di un organismo nazionale e pubblico di coordinamento, la delega di questo compito a un ente privato e il riconoscimento – mi pare di poter tranquillamente aggiungere – dell’organicità di Federparchi alle politiche governative presenti e future.

Un’associazione che tra l’altro fa da anni tandem con una sola delle grandi associazioni ambientaliste nazionali e spesso, come ho cercato di mostrare, in aperto contrasto con le altre. Valbonesi ritiene al contrario che si tratti di ordinaria amministrazione e anzi di un adeguamento a quanto avviene in paesi sicuramente evoluti come la Francia: si tratterebbe da noi di fare “così come da decenni fa e con ottimi risultati il ministero francese con la sua Federazione dei parchi”. Disgraziatamente quest’ultima affermazione è del tutto infondata e introduce un elemento di grave confusione. In Francia anzitutto non esiste una “Federazione dei parchi” ma esistono due istituzioni molto diverse tra loro. Una si chiama Parcs nationaux de France ed è niente meno che “un établissement public national à caractère administratif placé sous la tutelle du ministre chargé de la protection de la nature” che comprende tutti i presidenti dei parchi nazionali francesi, un rappresentante delle regioni, uno dei dipartimenti, un deputato, un senatore, due personalità desingnate dal ministero e un rappresentante dei sindacati del personale: altro che associazione privata! L’altra istituzione è effettivamente un’associazione privata, si chiama Fédération des parcs naturels régionaux de France, collabora certamente da decenni e con ottimi risultati – come afferma Valbonesi – con i vari ministeri ma il Code de l’environnement le attribuisce solo una funzione consultiva su alcune questioni molto specifiche, al pari peraltro di altri soggetti, mentre la legge quadro sui parchi del 2006 neppure la nomina. Che la “riforma” D’Alì/Caleo faccia in fondo “come la Francia” costituisce – a voler essere buoni – una pia illusione ma certamente non un dato di fatto. Essa non solo non “fa come la Francia”, essa fa ben altro e fa sicuramente molto peggio, tanto più che in Francia un ministero dell’ambiente esiste, funziona solidamente e persegue efficacemente le proprie politiche mentre in Italia, come riconoscono ormai anche politici un tempo sostenitori della “riforma”, il ministero dell’Ambiente è ormai solo un palazzo abitato da fantasmi.

In secondo luogo Valbonesi difende come novità positive l’accentuazione “del ruolo delle comunità delle comunità locali nel governo dei parchi nazionali” e l’apertura “al coinvolgimento diretto degli agricoltori”, due provvedimenti che stravolgono aspetti fondamentali dell’identità stessa dei parchi nazionali concentrando di fatto i poteri decisionali in testa a soggetti portatori di interessi locali e di categoria e non più nazionali e generali nel momento stesso in cui questi ultimi soggetti – il mondo scientifico su tutti – vengono progressivamente eslcusi. Su questi aspetti gravidi di rischi – oggi come ieri: non a caso l’attacco speculativo al Parco nazionale d’Abruzzo dei primi anni Sessanta si appoggiava a proposte di legge dal tenore analogo – ha concentrato la sua attenzione con le analisi precise e taglienti già citate Carlo Alberto Graziani e ad esse non posso che rimandare ancora una volta.

In terzo luogo Valbonesi difende in modo un po’ obliquo, senza nominarla direttamente, la parte della “riforma” che prevede la possibilità di introdurre nelle aree protette attività più o meno impattanti in cambio di una compensazione monetaria. Qui il riferimento è “nobile” ed è quello ai cosiddetti “servizi ecosistemici”, il cui pagamento dovrebbe divenire “il perno dell’autofinanziamento dei parchi e allo stesso tempo il parametro di riferimento principale per misurare la loro capacità di iniziativa, di tutela e di messa in valore delle risorse naturali che essi conservano”. Anche se vogliamo limitarci a un’analisi “alta” della questione, risparmiandoci la sofferenza di immaginare cosa possa comportare tutto ciò nella prosaica e rude concretezza dei territori, qui la distanza tra le posizioni che io difendo e quelle che difende Valbonesi è davvero profonda. Il concetto di “servizi ecosistemici” costituisce infatti – come sostiene limpidamente Virginie Maris nel suo recente Nature à vendre – un’arma a doppio taglio che va esattamente nel senso che ho cercato di denunciare nel mio articolo per “eddyburg”. Tale parola d’ordine, di successo molto recente, contiene e veicola infatti una considerazione sostanzialmente neoliberista di beni che sono e devono invece rimanere anzitutto collettivi e questa deriva, in Italia più forte che in altri paesi di tradizione statale più solida, costituisce per le aree protette un rischio ancor maggiore che per il pur minacciatissimo patrimonio storico-artistico. Di contro è indispensabile ricordare come nel nostro Paese la questione delle ricadute economiche – dirette e indirette – della tutela ambientale è stato al centro di tutto il dibattito sulle aree protette sin dalla metà degli anni Sessanta, con risultati sia teorici che operativi spesso di livello molto alto. Un dibattito che nella “riforma” D’Alì-Caleo viene miseramente e banalmente ridotto a una tenue compensazione monetaria di attività impattanti, a dispetto del manto nobilitante dei “servizi ecosistemici”.

Valbonesi espone infine una serie di interessanti considerazioni sulla questione dei criteri di nomina di direttori e presidenti dei parchi e sul loro ruolo, alcune sicuramente condivisibili e altre molto meno. Queste considerazioni prendono in gran parte spunto da una mia argomentazione contenuta nel saggio/denuncia del 14 dicembre, ma riportandola male e inducendo quindi in errore chi legge. Io avevo affermato che la “riforma” D’Alì/Caleo tende a codificare la tendenza in atto già da anni a limitare progressivamente l’autonomia amministrativa, culturale e operativa degli enti gestionali dei parchi assoggettando sempre più la scelta dei presidenti alla volontà delle segreterie (nazionali e locali) dei partiti politici e riducendo i direttori a fedeli esecutori di volontà esterne. Avevo anche affermato che tutto ciò, oltre che moralmente deplorevole, rischia di depotenziare in modo fatale la missione delle aree protette che è, per dirla con la formula che Valbonesi predilige, quella della “savaguardia della biodiversità”. All’interno di questo ragionamento avevo scritto – e qui lo riconfermo senz’altro – che senza il margine di autonomia garantito dalle precedenti normative, comprese quelle precedenti la legge quadro, i gestori delle aree protette italiane non avrebbero potuto essere come in effetti furono tra i maggiori protagonisti dello straordinario slancio che portò alla legge quadro e alla complessa e ricca configurazione attuale delle aree protette italiane. Dicevo anzi – e anche qui: lo confermo senz’altro – che la legge quadro è uscita in parte cospicua da discussioni degli anni Settanta e Ottanta svolte a Pescasseroli, nella sede del Parco nazionale d’Abruzzo, una circostanza oggi assolutamente inimmaginabile. Valbonesi, ricordando l’assai opaco esito di quella vicenda amministrativa, mi imputa una “mitizzazione” di quella esperienza. No, non è questo il punto. Io non mitizzo nulla, riporto un dato di fatto storico incontrovertibile per sottolineare una differenza tra quegli anni e quelli di oggi, tra una politica e una normativa che lasciavano margini, che permettevano l’iniziativa e la discussione e una politica e una normativa che sembrano preoccupate anzitutto di mettere tappi, di creare presidi ben controllati che non diano sorprese, che non deraglino. Una politica e delle normative che già ora sterilizzano gran parte delle energie che potrebbero dare un contributo rilevante alla soluzione dei tanti problemi dei parchi italiani. Tutto qui: ed è ben diverso dal mitizzare alcunché. Il punto è che la “riforma” D’Alì-Caleo mortifica programmaticamente quell’autonomia, già oggi ridotta al lumicino, e così facendo mortifica la capacità stessa delle aree protette di rappresentare qualcosa di innovativo e persino di difendersi da attacchi che pure ci sono e sono ben numerosi.

A fronte di questo giro di vite che accentra in mani sempre più ristrette e discrezionali i poteri decisionali Valbonesi scarta a priori l’idea che la soluzione ai problemi delle aree protette italiane possa risiedere nel tentativo “di risuscitare quel movimento di opinione che contraddistinse la fase più fervida dell’ambientalismo italiano degli anni 80” in quanto “oggi i cittadini sanno che l’obiettivo di istituire i Parchi è stato raggiunto ed è difficile, se non impossibile, mobilitarli per difendere i parchi [e che anzi] essi si aspettano che adesso siano le istituzioni a farli funzionare”. Abbiamo qui, evidentemente, due visioni opposte: da un lato un uomo delle istituzioni convinto che i cittadini siano oggi in attesa fiduciosa che le istituzioni stesse abbiano il pallino in mano e siano in grado di giocarlo correttamente; da un altro lato abbiamo cittadini che sono costretti a constatare una radicale incapacità/mancanza di volontà delle istituzioni nel garantire la sopravvivenza dei parchi e che ritengono che la prima risorsa sia come sempre la mobilitazione dell’opinione pubblica, per quanto in un contesto storico molto meno favorevole che in altre fasi. Solo da una onesta presa d’atto di questa divergenza è necessario partire se si vuole andare avanti.

Ma un aspetto che mi colpisce profondamente dell’intervento di Valbonesi – e con questo vorrei concludere – non riguarda tuttavia i contenuti bensì l’argomentazione, l’impostazione retorica.

Valbonesi utilizza infatti due argomentazioni parallele e complementari in questo periodo purtroppo molto in voga, estremamente deboli e persino logore ma che stanno facendo enormi danni a livello culturale e politico e altri danni sono certamente destinate a farne in futuro: la retorica dell’emergenza e un uso manicheo e caricaturale dell’opposizione innovazione/conservazione. È in senso stretto la retorica, brutalmente semplificatoria, che fa attualmente la fortuna del presidente del consiglio. La potremmo riassumere in questo modo: “la situazione è ormai incancrenita e immobile e un intervento incisivo e determinato è comunque il benvenuto; chi interviene modificando l’esistente perché ha il potere di farlo è comunque un innovatore, a prescindere dai contenuti. Chiunque provi invece a difendere l’esistente o pezzi dell’esistente, qualsiasi sia questo pezzo e in qualunque modo lo difenda, è comunque arroccato, è comunque conservatore, è comunque vecchio”. Le opposizioni (esplicitamente e ruvidamente valutative) vecchio/nuovo, innovatore/conservatore diventano insomma il passepartout per semplificare radicalmente il dibattito se non per chiuderlo preventivamente, sapendo che si gode comunque del vantaggio dei numeri. Da qui ai “gufi”, ai “professoroni”, ai “comitatini” che ornano la retorica renziana il passo è necessariamente brevissimo.

Eppure io non credo che questo sia il significato di democrazia e di partecipazione che per un pezzo di storia degli ultimi quarant’anni io, Valbonesi e migliaia di altre persone abbiamo condiviso e che ha costituito un pilastro cruciale delle realizzazioni di cui continuiamo ad essere giustamente orgogliosi. Cerchiamo insomma di stare il più possibile sul pezzo e di starci, se possiamo, con onestà e mente fredda. I “gufi” lasciamoli ad altri: con un po’ di buona volontà forse ce la facciamo.