L’epidemia di coronavirus e le minacce agli ecosistemi e alla fauna selvatica

La perdita di habitat e i cambiamenti climatici legati all'emergenza globale delle malattie infettive

[4 Marzo 2020]

L’United Nations environment programme (Unep) avverte che le zoonosi, le malattie trasmesse dagli animali all’uomo, «sono in aumento mentre le attività antropiche continuano a causare una distruzioni senza precedenti degli habitat selvatici». Ed è la stessa Unep a citare lo studio “The Coevolution Effect as a Driver of Spillover”, pubblicato su Trends in Parasitology da un team di ricercatori dell’Auburn University, che formula una nuova ipotesi che potrebbe fornire le basi per nuovi studi scientifici che esaminino i collegamenti tra la perdita di habitat e l’emergenza globale di malattie infettive.

Sarah Zohdy, della School of forestry and wildlife sciences e del College of veterinary medicine della Auburn – che ha firmato lo studio insieme ai suoi colleghi Tonia Schwartz e Jamie Oaks del Department of biological sciences del College of sciences and mathematics – spiega: «Forniamo una nuova prospettiva su come la perdita di habitat possa facilitare l’emergere di malattie infettive negli esseri umani».

Gli scienziati ritengono che, a livello globale «La perdita di habitat sia associata a malattie infettive emergenti (emerging infectious diseases o EIDs) che si diffondono dalla fauna selvatica all’uomo, come Ebola, virus del Nilo occidentale, SARS, virus di Marburg e altre». Per spiegare i meccanismi alla base di questa associazione, il team dell’Auburn ha sviluppato una nuova ipotesi: l’effetto di coevoluzione, «che è radicato nell’ecologia e nella biologia evolutiva».

La Schwartz spiega a sua volta che «Il team ha integrato idee provenienti da molteplici aspetti della biologia, tra cui l’ecologia delle malattie, la biologia evolutiva e la genetica del territorio, per sviluppare la nuova ipotesi sul motivo per cui è più probabile che le malattie si diffondano dalla fauna selvatica all’uomo in habitat disboscati. Forniamo un’ipotesi verificabile che speriamo che altri ricercatori provino a testare con i loro dati, come faremo noi. Indipendentemente dal fatto che questi studi supportino pienamente questa nuova ipotesi, prevediamo che fornirà una nuova prospettiva che altri ricercatori in questo campo possono utilizzare e sviluppare, in ultima analisi, puntiamo a far progredire questo campo per comprendere la diffusione delle malattie e prevenirla».

L’ecologia della malattia si basa soprattutto su un’ipotesi nota come effetto di diluizione, che risale all’inizio di questo secolo. La Zohdy sottolinea che «E’ essenzialmente l’idea che la conservazione della biodiversità possa proteggere l’uomo dalle malattie infettive emergenti.  L’effetto di diluizione evidenzia il ruolo fondamentale che la conservazione della fauna selvatica può svolgere nella protezione della salute umana e ha trasformato la comprensione delle malattie infettive zoonotiche».

Ma finora, anche dopo che molte ricerche negli ultimi decenni hanno valutato questa ipotesi e trovato legami tra la perdita di biodiversità e gli EIDs, non c’era nessuna alcuna spiegazione su dove provengano i microbi che causano gli EIDs e come infettano gli esseri umani. La Zohdy evidenzia che «Attraverso la nostra ipotesi, proponiamo che mentre gli esseri umani alterano il territorio con la perdita dell’habitat, i frammenti di foresta fungono da isole e gli ospiti della fauna selvatica e i microbi che causano malattie che vivono al loro interno subiscono una rapida diversificazione. In un territorio frammentato vedremmo quindi un aumento della diversità dei microbi che causano malattie, aumentando la probabilità che uno di questi microbi raggiunga le popolazioni umane, innescando dei focolai».

Oaks ha detto di essere incoraggiato dal fatto che la ricerca avrà un impatto sul modo in cui vengono percepiti questi problemi: «Il nostro documento introduce un meccanismo evolutivo per spiegare l’associazione tra frammentazione dell’habitat e diffusione delle malattie nelle popolazioni umane, che speriamo integrerà le prospettive ecologiche in questa sfida globale per la salute».

Dean Janaki Alavalapati, decano della School of forestry and wildlife sciences della Auburn conclude: «I risultati dello studio sono convincenti. La dottoressa Zohdy e i suoi colleghi ricercatori forniscono spunti di rilievo nel campo delle malattie infettive emergenti e delle forze motrici che sono dietro di loro. Le loro scoperte potrebbero comportare un cambiamento significativo nel modo in cui vengono percepite le origini di queste malattie».

L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) dice che la fonte del Coronavirus COVID-19, responsabile del contagio di decine di migliaia di persone in tutto il mondo e che sta mettendo a dura, è probabilmente un animale e che il maggiore indiziato è un pipistrello, aggiungendo che il COVID-19 avrebbe fatto il salto nell’uomo passando attraverso un’altra specie anomale, che potrebbe essere sia domestica che selvatica.

I coronavirus sono zoonosi, cioè vengono trasmessi tra gli animali e gli uomini. Degli studi precedenti hanno dimostrato che la SARS era stata trasmessa agli esseri umani dalle civette, un mammifero, mentre la MERS era stata trasmessa agli uomini dai dromedari. In una recente nota l’Oms sottolinea che «Conseguentemente, come regola generale, il consumo di prodotti animali crudi o insufficientemente cotti dovrebbe essere evitato. La carne cruda, il latte crudo o gli organi di animali crudi dovrebbero essere manipolati con precauzione per evitare ogni contaminazione incrociata con degli alimenti non cotti». E in base a questa dichiarazione che il governo cinese ha proibito la caccia, il commercio legale e illegale di animali selvatici e il loro consumo.

Doreen Robinson, a capo del settore wildlife dell’Unep, ricorda che «Gli esseri umani e la natura fanno parte di un solo e stesso sistema interconnesso e la natura fornisce il cibo, le medicine, l’acqua e l’aria pura e numerosi altri vantaggi che hanno permesso alle persone di prosperare, Come in tutti i sistemi, dobbiamo capire come funzionano per non spingerli al limite e dover far fronte a conseguenze sempre più negative».

Il rapporto “Frontiers 2016: Emerging issues of environmental concern”, pubblicato nel 2016 dall’Unep dimostra che «Le zoonosi minacciano lo sviluppo economico, il benessere animale e umano e l’integrità degli ecosistemi«. Il Coronavirus COVID-19 non è il primo e non sarà l’ultimo ad occupare le pagine di tutti i giornali e a spaventare la gente in tutto il mondo. Anzi, negli ultimi anni e decenni abbiamo dovuto affrontare malattie molto più pericolose come Ebola, l’influenza aviaria, la febbre della valle del Rift, il virus del Nilo occidentale e il virus Zika. Zoonosi che ci hanno preoccupato poco – se non per un breve periodo di psicosi – perché sono spesso rimaste confinate nei Paesi in via di sviluppo.

Ma secondo il rapporto Unep, «Nel corso degli ultimi due decenni, le malattie emergenti hanno avuto un costo di oltre 100 miliardi di dollari» e l’agenzia ambientale dell’Onu avverte che «Questa cifra passerebbe a diversi bilioni di dollari se le epidemie si trasformassero in pandemie umane»

L’Unep conclude: «Dal punto di vista della comunità ambientale, è importante affrontare le molteplici minacce, spesso interdipendenti, che pesano sugli ecosistemi e la fauna selvatica, per impedire l’emergere di zoonosi, in particolare la perdita e la frammentazione degli habitat, il commercio illegale, l’inquinamento, le specie invasive e, sempre di più, i cambiamenti climatici».