Scoperte le interazioni molecolari tra proteine responsabili della fotosintesi clorofilliana

Una ricerca del Politecnico di Torino e dell’università di Utrecht che potrebbe servire a realizzare tecnologie fotosintetiche artificiali per produrre combustibili solari e semiconduttori per la produzione di idrogeno

[13 Marzo 2020]

La fotosintesi clorofilliana nelle piante è un processo noto nei suoi principi generali di funzionamento, ma l’analisi delle sue varie fasi e componenti può ancora portare all’arricchimento della conoscenza scientifica del fenomeno, con ricadute in quegli ambiti che studiano le applicazioni biomimetiche, in particolare nel campo della produzione di energia.

E’ quel che ha fatto lo studio “How paired PSII-LHCII supercomplexes mediate the stacking of plant thylakoid membranes unveiled by structural mass-spectrometry”, pubblicato su Nature Communications da Guido Saracco, Pascal Albanese e Cristina Pagliano del Dipartimento scienza applicata e tecnologia del Politecnico di Torino Politecnico di Torino e da Sem Tamara e Richard Scheltema  dell’università olandese di Utrecht, frutto di una ricerca coordinata dalla Pagliano avviata nel 2014.

Al Politecnico di Torino spiegano che «Si tratta di uno studio strutturale e biochimico del grosso complesso enzimatico Fotosistema II (PSII), ovvero il complesso proteico che all’interno delle piante agisce per primo nel processo di conversione dell’energia luminosa in energia chimica ed è responsabile della produzione di ossigeno. Questo enzima si trova all’interno dei tilacoidi, membrane fotosintetiche con una forma simile a dei “sacchetti appiattiti”, dove ha la funzione di raccogliere la luce solare e convertirla in energia chimica durante la fase luminosa della fotosintesi. Nelle piante, per ottimizzare la raccolta della luce, al Fotosistema II si associano delle proteine antenna (LHCII), ed insieme formano il supercomplesso PSII-LHCII. Parecchi supercomplessi PSII-LHCII sono presenti in ogni tilacoide. Nelle piante, i tilacoidi sono principalmente impilati l’uno sopra l’altro in “pile” – dette grana. Nei grana, i supercomplessi PSII-LHCII, assorbendo energia solare, catalizzano la reazione di fotolisi dell’acqua, producendo ossigeno molecolare che, liberato in atmosfera, è vitale per la sopravvivenza di ogni essere vivente sul nostro pianeta».

L’obiettivo di questa ricerca è stato quello di «indagare proprio come questi supercomplessi PSII–LHCII, presenti in ogni tilacoide, potessero interagire corrispettivamente tra “sacchetti” adiacenti uno all’altro e alla fine stabilizzare la struttura dei grana. Due sono state le principali tecniche adottate: per studiare la struttura tridimensionale di questi supercomplessi proteici si è utilizzata la crio-microscopia elettronica che permette di vedere in 3D ad alta risoluzione le grosse molecole biologiche e che ne ha messo in luce la conformazione appaiata e quindi il legame tra un supercomplesso e l’altro; poi la spettrometria di massa abbinata a cross-linking, che sfruttando “colle” molecolari, i cross-linkers, che legano covalentemente in specifici aminoacidi due o più proteine che si trovano a distanza ravvicinata, ha permesso di identificare le proteine di supercomplessi adiacenti che interagiscono tra di loro. Combinando i dettagli molecolari ottenuti si è riusciti a dare un nome alle proteine responsabili delle interazioni che determinano l’appaiamento dei supercomplessi PSII-LHCII e provare il loro diretto coinvolgimento nel mantenere la disposizione impilata dei tilacoidi in grana».

Il team di ricercatori evidenzia che «Si tratta di un traguardo importante sia per la ricerca di base sia per i risvolti che si possono attuare nelle tecnologie dell’energia rinnovabile. La conoscenza dei processi molecolari della fotosintesi fornisce infatti un modello per disegnare tecnologie fotosintetiche artificiali per produrre combustibili solari e per creare sistemi basati su semiconduttori per la scissione dell’acqua e per la produzione di idrogeno su larga scala».

La Pagliano conclude: «Questo risultato è frutto di una ricerca “integrativa”, sia per le tecniche complementari utilizzate sia per l’effettiva integrazione con gruppi di ricerca italiani ed europei, in questo caso quello del Dr. Scheltema della Utrecht University, che hanno collaborato nei vari anni allo studio. Solo lavorando in sinergia, ciascuno puntando sulle proprie competenze e nel rispetto di quelle altrui, possiamo raggiungere traguardi importanti nella ricerca».