Il primo intervento per il think tank Eco²-Ecoquadro dell’economista Luciano Canova

Che cos’è il benessere? L’economia alla ricerca della felicità

La strada per una vita buona passa per una geografia complessa, tra piaceri fulminei e virtù civili

[28 Ottobre 2013]

Ci sono parole che pesano e, proprio per questo, da usare con il bilancino. Negli ultimi anni è cresciuto molto il filone di studi dedicato alla happiness, all’interno di quella letteratura che sottolinea la necessità di modificare la metrica con cui cerchiamo di misurare il nostro benessere, troppo spesso associato soltanto ad indicatori monetari.

Non è una letteratura recente, posto che la GNH (Gross National Happiness) è stata introdotta in Bhutan agli inizi degli anni ’70 e di multidimensionalità del benessere parla da decenni anche il premio Nobel Amartya Sen. Sul finire degli anni ’90, un altro premio Nobel, Daniel Kahneman, ha proposto un metodo di rilevazione empirica degli stati edonici che potrebbe ispirare una contabilità nazionale fondata sul benessere soggettivo. L’ONU, inoltre, da due anni pubblica il World Happiness Report, una pubblicazione che monitora a livello macroeconomico proprio l’andamento di questo indicatore di felicità, costruito sulla base di questionari somministrati a campioni rappresentativi della popolazione di diversi stati.

Il concetto secondo cui il benessere debba essere misurato non soltanto attraverso il reddito, ma anche considerando altre dimensioni, non soltanto è una questione di buon senso, ma è anche un risultato riconosciuto dalla comunità scientifica. E già applicato pure dai governi, se si pensa che l’ISTAT ha lanciato lo scorso marzo il BES (Benessere Equo e Sostenibile) e molte città stanno cercando di declinare questo approccio all’interno della propria realtà locale.

Si tratta, allora, di fare chiarezza, e molto ancora deve essere fatto, all’interno di un filone di ricerca che interessa molte discipline e, di fatto, molti concetti.

Che cosa è, infatti, happiness? Happiness è molte cose: potremmo dire che si tratta di un concetto fuzzy e complesso. La parola happiness deriva dall’inglese to happen, e cattura proprio la dimensione quasi fortuita e casuale degli stati edonici. In modo simile, la versione tedesca gluck si riferisce sia alla felicità sia alla fortuna nel gioco d’azzardo. Questa interpretazione è simile all’etimologia della parola greca e aristotelica eudaimonia (eu daimon significa buon demone).

Il paradosso, tuttavia, è che il concetto aristotelico di felicità è decisamente più profondo: la felicità è una virtù civile che si costruisce attraverso la relazionalità tra cittadini e, in generale, tra esseri umani. Essa germoglia come un fiore e come un fiore va coltivata. Rifacendo un balzo temporale, la tradizione filosofica inglese più recente parla di felicità, con questa accezione, usando i termini human flourishing. Quindi, c’è già una prima distinzione tra stati edonici fulminei e istantanei, fortemente influenzati da variabili di contesto, e una dimensione più strutturale del benessere, che attiene a ciò che rende più significante la nostra vita. Ancora una volta, non è un caso che la letteratura psicologica e filosofica parli anche di meaningfulness.

La parola italiana felicità viene, invece, dal latino e il prefisso fe- è lo stesso di fecondo. Il concetto che sta dietro la nostra parola, insomma, si avvicina più a quello di virtù civile aristotelico e della tradizione napoletana facente capo, tra gli altri, ad Antonio Genovesi, per esempio (molto studiato da Luigino Bruni e Stefano Zamagni).

Da un punto di vista empirico, questa complessità implica diversi approcci e la necessità di una certa apertura mentale: ognuna di queste accezioni ha, infatti, la sua importanza.

Sviluppare una metrica della felicità, da affiancare al PIL per informare lo Stato e le politiche che hanno un impatto sui cittadini, è un compito che possiamo, dunque, e dobbiamo affrontare.

Tentando una metafora piuttosto ardita, l’analogia è la stessa che passa tra meteorologia e clima.

Per usare la parola clima, infatti, servono (secondo la definizione della World Meteorological Organization) 30 anni di osservazioni. La meteorologia, invece, ha bisogno solo di un paio di settimane di osservazioni ed è più volatile, esattamente come lo è il mood rispetto alla nostra natura più profonda.

Sia il mood sia il nostro io più strutturale, tuttavia, sono fortemente interrelati ed è bene avere una mappa precisa di entrambi, per una geografia della felicità, fondata su dati scientifici, che si assuma la responsabilità (à la Jonas) di descrivere che cosa sia la felicità e fornire un nuovo schema interpretativo alla politica pubblica.