Google punta sull’immortalità. Esagerata certo, ma da noi chi spara alla luna?

[26 Novembre 2013]

Per Larry Page – CEO di Google –  sconfiggere il cancro non è abbastanza. Lui vuole sconfiggere la morte. O, almeno, allungare la vita. Se va bene, anche di cento anni.

Antica ambizione, la ricerca dell’immortalità. O, almeno, della lunga vita. Ha impegnato per secoli gli alchimisti, alla ricerca dell’elisir, appunto, di lunga vita. L’ambizione si è in parte realizzata. Oggi la vita media nel mondo supera i 60 anni e nei paesi più ricchi supera gli 80 anni. I nostri antenati, nel paleolitico vivevano, in media, 20 anni. E ancora alla fine del XIX secolo, anche in Europa, la vita media non superava i 40 anni.

È possibile fare di meglio. Larry Page crede di sì. E anche se non ha alcun esperienza in medicina e biologia dell’invecchiamento, conviene ascoltarlo. Perché Page a 40 anni è il CEO (l’amministratore delegato) di Google, la grande società da 100 miliardi di dollari che vanta il sito internet più visitato al mondo, che ha il motore di ricerca più utilizzato, che gestisce la gran parte della posta elettronica che noi ci scambiamo, che ha mille altre attività, informatiche e non.

Ebbene Larry Page, cioè Google, si è messo in testa di sfruttare la sua più grande risorsa – le informazioni che ha su tutti noi, utenti di internet –  per metterla in sinergia con la ricerca genetica e scoprire la cause dell’invecchiamento. Più precisamente si cercherà di abbinare il profilo genetico delle persone (Google vende già il kit per la mappatura del genoma a 99 dollari e spera nei prossimi anni di offrire, per la stessa cifra, il sequenziamento completo del Dna di una persona) a tutti i dati raccolti con computer, telefoni cellulari e ogni altro strumento informatico che – siano le domande poste al motore di ricerca, i siti visitati, la posizione rilevata via GPS, le telefonate realizzate, le connessioni aperte – consentano di definire il profilo  di una persona. L’obiettivo è chiaro: rimuovere le cause e allungare la vita. E tutto ciò nel breve volgere di 10 o 20 anni.

Per questo, lo scorso mese di settembre, ha fondato la California Life Company (Calico) e l’ha affidata ad Arthur Levinson, un biochimico che è stato il CEO della Genentech, una società specializzata nello sviluppo di tecnologie basate sulla genetica.

Il progetto è visionario. E, d’altra parte, Google ha tra i suoi collaboratori molti visionari. Ray Kurzweil, il teorico della “singolarità prossima ventura”, ovvero del momento, individuato intorno al 2035, in cui l’intelligenza delle macchine supererà quella umana, è il direttore del settore ingegneristico di Google.

Ma Google ci crede. Nel senso che la biologia è considerata un settore strategico e che la società è disponibile a investire nella ricerca un bel po’ di quattrini. Lo dimostra il fatto che Levinson insieme a Anne Wojcicki, moglie di Sergey Brin, co-fondatore di Google, a Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook, e all’imprenditore russo Yuri Milner, hanno istituito il Breakthrough Prize in Life Sciences, un premio da 33 milioni di dollari per “riconoscere l’eccellenza nella ricerca volta alla cura delle malattie intrattabili e ad allungare la vita umana».

Naturalmente noi ci auguriamo che Google riesca nella sua iniziativa visionaria. Anche se l’impresa sembra segnata da un’ombra di velleitarismo. In fondo le cause dell’invecchiamento sono studiate da molti anni da ricercatori diffusi in tutto il mondo. Questa ricerca ha fruttato molte conoscenze di base ma, tutto sommato, poche applicazioni pratiche. Non fosse altro perché l’invecchiamento è un fattore multifattoriale. Un intreccio molto fitto di genetica, ambiente e storia individuale.

L’annuncio di Google e la nascita di Calico hanno un indubbio correlato sociale. E vengono sia dopo il progetto di Mark Zuckerberg (consentire l’accesso a internet ad almeno 5 miliardi di persone), sia dopo il progetto di Bill Gates, fondatore della Microsoft, e della moglie Melinda, combattere alcune malattie infettive, come la malaria e l’Aids, che uccidono milioni di persone, soprattutto in Africa.

È come sé i grandi geni dell’imprenditoria informatica che si sono arricchiti in maniera illimitata nel giro di pochissimi anni sentissero troppo stretti gli spazi virtuali in cui si muovono e cercassero di ripagare in qualche modo l’umanità con la loro filantropia.

C’è anche una ricerca di immagine, è chiaro, in questo profluvio di iniziative.

Ma questa annunciata da Google, pur possedendo alcune caratteristiche delle altre, ne ha anche altre, che indicano qualcosa: il bisogno incessante di innovare. Il bisogno di esplorare nuove dimensioni. Di fare di più e di meglio degli altri. Di “sparare alla luna”, come dicono gli americani. E, cosa ancora più difficile, è quella di continuare a “sparare alla luna” anche dopo aver raggiunto il successo, quando si è tentati di mettersi in poltrona e raccogliere quanto si è già seminato.

È questa un’indicazione che ha un valore generale. Vale anche per noi, in Italia. Quanto del nostro declino dipende dal fatto che la gran parte degli imprenditori italiani ha smesso da tempo di “sparare alla luna”, come faceva invece Adriano Olivetti?