Salviamo la ricerca italiana: in 35mila scrivono a governo e Ue

Sbanca in rete l'adesione alla petizione del fisico Giorgio Parisi per finanziamenti e rispetto del trattato di Lisbona. Come sostenerla

[17 Febbraio 2016]

La petizione per i finanziamenti alla ricerca promossa da Giorgio Parisi, uno dei più noti fisici teorici del mondo, si era fissata un paletto a 25mila firme ma ora le ha ampiamente superate, raggiungendo quota 35mila. Ora punta alle 100mila. La petizione riprende una lettera ─ il testo nel sito della petizione ─ pubblicata su Nature, autorevole rivista scientifica, scritta da Parisi insieme a Duccio Fanelli, Vincenzo Fiorentini, Stefano Ruffo e Giovanni Ciccotti, e sottoscritta da 65 professori e ricercatori italiani.

La ricerca italiana è sotto-finanziata, ma questa volta non ci si rivolge solo al governo perché stanzi più fondi, ma anche all’Unione europea perché costringa gli stati membri a finanziare la ricerca in maniera equa. Il motivo? Si rischia di destinare i fondi europei della ricerca a chi ha già molto in termini di finanziamenti e numero di ricercatori, e quindi riesce a vincere i bandi europei e ottenere ulteriori finanziamenti.

È il solito serpente che si morde la coda. Il contributo di ciascuno Stato ai fondi europei per la ricerca è proporzionale al Pil (Prodotto interno lordo), ma quello che ne ricava dipende dalle capacità e dal numero dei ricercatori. Se si finanzia poco la ricerca nazionale, si ottiene anche poco dall’Europa.

Col risultato di avere un saldo negativo tra quanto si mette nei fondi europei e quanto se ne ricava per le ricerche nazionali. È quello che è successo appunto all’Italia nell’ultimo Programma quadro europeo, al quale ha contribuito con 900 milioni di euro ricavandone 600. In pratica, finanziando la ricerca inglese e tedesca.

Nella petizione, all’Unione europea si chiede anche di far rispettare agli stati membri il trattato di Lisbona del 2000 che fissava al 3% la quota del Pil da destinare alla ricerca. Secondo i dati Ocse (che raggruppa i paesi più sviluppati del mondo) del 2013 l’Italia dedicava alla ricerca l’1,26% del Pil, contro una media dei paesi Ocse del 2,36%. Una differenza che in termini assoluti vale circa 21 miliardi.

Nonostante tutto i ricercatori italiani si fanno onore. Ha fatto notizia negli scorsi giorni l’assegnazione dei fondi Erc (il Consiglio europeo della ricerca), a 302 scienziati su più di 2mila candidati. Trenta dei 302 sono di nazionalità italiana.

Una notevole affermazione, a pari merito o quasi con Francia e Inghilterra, che ha suscitato anche i complimenti del ministro dell’Istruzione Stefania Giannini. Complimenti che hanno sollevato le rimostranze di una delle vincitrici, professore ordinario in Olanda (a 33 anni) non essendo mai riuscita a vincere un concorso universitario in Italia: non mi avete voluto in Italia ─ questo il ragionamento della professoressa ─ non vi attribuite ora i miei meriti. Uno sfogo, certo, ma che mette in evidenza l’altro aspetto che mina la ricerca e che crea una miscela micidiale fatta di assunzioni basate sulla cooptazione e mancanza di finanziamenti, che rendono l’Italia, come afferma Parisi, un Paese poco amichevole per i ricercatori.

Quindi il problema non è solo quello di aumentare i finanziamenti, ma di creare un sistema completamente diverso. Non se ne può più di vedere in Tv le Iene che rincorrono l’ennesimo professore universitario messo in cattedra con un’operazione di nepotismo. Operazioni che vanno rottamate, per dirla con Renzi. I 500 professori cosiddetti “del merito” finanziati nella legge di stabilità possono essere un piccolo passo, ma occorre andare molto oltre. Per farlo capire al governo una firma in più è importante: per farlo basta cliccare qui.

di Ferdinando Semboloni