Riceviamo e pubblichiamo

La proposta di legge di iniziativa popolare sui beni comuni: una risposta alle critiche

[12 Febbraio 2019]

È partita l’8 febbraio la raccolta delle firme per la proposta di legge d’iniziativa popolare sui beni comuni per iniziativa di un Comitato intitolato a Stefano Rodotà e composto da alcuni dei protagonisti della Commissione ministeriale da lui presieduta (in particolare Ugo Mattei e Aberto Lucarelli). La proposta contiene il disegno di legge con cui quella Commissione nel 2018 aveva concluso i suoi lavori e che, presentato in Senato sia nel 2010 sia nel 2013, non era stato mai discusso.

Sin dal suo apparire la proposta non ha mancato di sollevare forti critiche: alcune pretestuose, come quelle di Paolo Maddalena; altre, in parte fondate (lo vedremo), come quelle di alcune comunità espressione di esperienze concrete; altre ancora, fortemente ideologiche, come quelle di Stefano Fassina pubblicate su Il Fatto Quotidiano del 31 gennaio. Queste ultime sono particolarmente significative perché dimostrano quanto sia facile, anche per chi come lui è solito affrontare i problemi con serietà, cedere a un’astratta contrapposizione fondata su categorie ideologiche anziché misurarsi con le questioni sostanziali impostandole correttamente sul piano concettuale per coglierne la vera portata.

Affermare infatti che le norme contenute in quella proposta sono “sinergiche al paradigma liberista e ne allargano il dominio sui residui spazi sociali ancora preservati dai beni pubblici”, ritenere che l’impianto culturale sottostante sia “di fatto funzionale al domino dell’economico sul sociale attraverso iniziative di ulteriore smantellamento dello Stato e privatizzazione dei beni pubblici”, significa, per un verso, ignorare la lezione pluridecennale di Stefano Rodotà che nella  Commissione ministeriale da lui presieduta aveva portato scienza e autorevolezza e, per altro verso, fraintendere completamente il significato e la portata di quella proposta e in particolare della norma – pietra dello scandalo – secondo cui “titolari di beni comuni possono essere persone giuridiche pubbliche o soggetti privati”.

Giustificare l’accusa di neoliberismo per il fatto che questa norma, essendo contenuta in una proposta di legge delega e dovendo quindi essere attuata dal Governo (questo Governo?), ha l’obiettivo “di sottrarre alla sfera pubblica e affidare a titolarità privata i beni comuni” – quali una foresta in Umbria, una spiaggia in Calabria o anche, estremizzando, il Colosseo – con la conseguenza di consegnare, “tramite il mercato, i beni pubblici e la connessa fruizione collettiva allo sfruttamento capitalistico e al profitto”, significa rifiutarsi di entrare nel merito di quanto la norma stabilisce e quindi rinunciare a scoprire la straordinaria portata dei beni comuni.

Sfugge infatti a questa critica proprio il significato di bene comune che era emerso nel disegno di legge della Commissione Rodotà, ripreso integralmente dall’attuale proposta, e che introduce elementi destinati a modificare profondamente concetti e impostazioni tradizionali.

Il tema è particolarmente complesso: per tentare di essere chiaro voglio fare riferimento a due casi. Il primo riguarda proprio uno degli esempi indicati da Fassina, il bosco; il secondo riguarda un’esperienza concreta.

Nell’ordinamento giuridico vigente i boschi sono oggetto di proprietà pubblica, privata o anche collettiva (quest’ultima deve intendersi riferita agli usi civici e a quegli assetti fondiari collettivi quali le regole ampezzane, le comunanze agrarie marchigiane e umbre, le partecipanze emiliane, ecc.). I boschi, al pari degli altri beni indicati dalla proposta di legge (parchi, riserve, zone montane di alta quota, zone paesaggistiche tutelate, ecc.), sono beni comuni perché “esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona” e perché, avendo questa funzione, “devono essere tutelati e salvaguardati anche a beneficio delle generazioni future”.  Ma – ci si può chiedere – non vi è contraddizione per il fatto che il bosco è nello stesso tempo oggetto di proprietà (esclusiva) e bene comune (inclusivo)? Il bene comune non è forse l’opposto della proprietà come diceva Rodotà, il quale aggiungeva, con un’espressione solo apparentemente paradossale, che i beni comuni “appartengono a tutti e a nessuno”?

La risposta ci fa capire quanto profondamente i beni comuni incidano sul concetto stesso di proprietà. No, non vi è contraddizione perché il proprietario resta tale – e perciò può alienare il bosco a meno che non si tratti di proprietà collettiva, può comunque trarne i frutti, darlo in affitto, ecc. –, ma non può porre azioni che incidono su quelle utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali: non può in linea di principio (saranno i decreti delegati a indicare i limiti precisi) spiantare il bosco, modificare la coltura arborea tradizionale, impedire l’accesso a chi, ad esempio, vuole raggiungere la cima di una montagna o respirare l’aria salutare o comunque godere del rapporto con la natura.

In sintesi il bosco e gli altri beni comuni non possono essere sottratti al godimento di tutti. Emergono dunque due aspetti fondamentali: l’accesso, che deve essere assicurato a tutti (i decreti delegati dovranno regolamentarlo); la tutela giurisdizionale, per cui chiunque può agire in giudizio per far cessare la violazione dei diritti connessi alla salvaguardia e alla fruizione di quei beni (azione inibitoria).

Si  scopre così la nuova dimensione della questione proprietaria.

Fino a oggi dottrina giuridica e giurisprudenza si sono arrovellate per individuare il contenuto minimo del diritto di proprietà garantito dalla Costituzione, cioè quel confine oltre il quale non può spingersi il legislatore al quale peraltro spetta il potere di “determinare i modi di acquisto, di godimento e i limiti” della proprietà “allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti” (art. 42). I beni comuni pongono il problema opposto, quello del limite massimo della proprietà, il limite cioè oltre il quale si apre un vasto campo dove non esiste più proprietà perché i beni sono di tutti e perciò non è nemmeno configurabile un esercizio illegittimo del diritto di proprietà: oltrepassare quel limite significa violare non già il diritto di proprietà proprio perché non esiste più, bensì diritti fondamentali che spettano a tutti, anche alle future generazioni, perché hanno per oggetto beni  necessari a soddisfare bisogni fondamentali delle persone.

Il secondo caso è quello di Mondeggi, un’antica fattoria di circa 200 ettari a impianto mezzadrile, con villa medievale e poderi, di notevole valore paesaggistico, situata nel Comune di Bagno a Ripoli, già di proprietà della Provincia di Firenze e oggi, dopo la soppressione delle province, della Città Metropolitana.

Alla fine del 2013 un gruppo di agricoltori, tecnici, docenti, giovani disoccupati del Comitato fiorentino  Terra bene comune, in collaborazione con la rete Genuino Clandestino, ha occupato la fattoria per sottrarla all’abbandono e al degrado causati da una gestione disastrosa e ha lanciato il progetto “Verso Mondeggi bene comune – Fattoria senza padroni” per dar vita a un esperimento di autogestione condiviso con la popolazione locale, aperto a tutti e volto a perseguire molteplici obiettivi: promuovere l’accesso dei giovani alla terra, recuperare l’agricoltura contadina,  garantire il diritto al cibo sano e al lavoro non mercificato, rivitalizzare il sistema insediativo, conservare la bellezza e il paesaggio, impedire svendite o comunque usi diversi da quelli agricoli.

Duplice la reazione della Provincia: dopo essersi dimostrata tollerante nei confronti delle iniziative degli occupanti e aver dichiarato addirittura di volere accogliere la sua richiesta di sperimentare su parte dei terreni e dei fabbricati un modello di gestione partecipata, ha deciso di disfarsi della fattoria e ha intimato il rilascio. La Città Metropolitana ha confermato l’intenzione di alienare e ha bandito alcune gare, finora però andate deserte.

Gli occupanti, con il sostegno di una parte del mondo agricolo e della società civile, hanno ribadito la loro volontà di restare e hanno continuato e continuano tuttora a dimostrare con i fatti l’alto valore del progetto.

L’esperienza di Mondeggi, come di altri casi simili che riguardano non solo terre agricole ma anche immobili urbani, ha evidenti risvolti politici. Sul piano giuridico occorre però verificare se una forte e diffusa consapevolezza che queste esperienze si colleghino al concetto di bene comune, al di là del loro indubbio significato valoriale, possa prevalere sulla pretesa di chi, soggetto pubblico o privato, intenda far valere il proprio diritto di proprietà.

Attualmente, in assenza di una legge che accolga espressamente i beni comuni in seno al nostro ordinamento giuridico, occorre fare molta attenzione, soprattutto di fronte alle intimazioni di rilascio, e cogliere tutte le prospettive offerte dalle norme vigenti. Nel caso di Mondeggi gli occupanti si sono fatti carico di un affare che avrebbero dovuto gestire i proprietari e pertanto, sostituendosi a loro, hanno posto in essere un’operazione che sul piano tecnico-giuridico si configura come “gestione di un affare altrui” (negotiorum gestio), prevista espressamente dall’art. 2028 cod. civ.: dunque un’operazione legittima che, oltre tutto, può ricondursi al principio di sussidiarietà oramai costituzionalizzato (art. 118 Cost., ult. comma). Di conseguenza trova applicazione l’art. 2031 cod. civ. che prevede l’obbligo del proprietario di rimborsare a chi ha gestito l’affare “tutte le spese necessarie o utili con gli interessi dal giorno in cui le spese stesse sono state fatte”. Si potrebbe inoltre sostenere che, fino a quando non venga effettuato il rimborso, gli occupanti hanno diritto a restare nella fattoria ai sensi dell’art. 1152 cod. civ. che prevede la ritenzione a favore del possessore di buona fede (ma la questione è molto delicata).

Sul piano dello ius condendum occorre invece verificare se effettivamente la fattoria di Mondeggi possa assumere la natura giuridica di bene comune. Certamente la sua storia secolare, legata all’antica villa e alla tradizione mezzadrile, risponde a un interesse generale come a un interesse generale rispondono gli obiettivi che si sono posti gli occupanti. D’altra parte l’inerzia iniziale della proprietà o comunque la sua tolleranza e a tratti addirittura il suo avallo hanno reso possibili e legittimi l’avvio e il consolidarsi di un’esperienza straordinaria che si basa sull’autogoverno di una comunità, ha una forte valenza etica (rifiuto del profitto), è aperta a tutti, è volta ad affermare valori costituzionalmente rilevanti (il libero sviluppo della persona, il lavoro, il paesaggio e l’ambiente, il patrimonio storico e artistico, la salute e il cibo). Mondeggi perciò esprime proprio quelle “utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona” che secondo la proposta di legge costituiscono l’essenza dei beni comuni. A giusto titolo, dunque, la fattoria di Mondeggi e gli altri beni che presentano analoghi profili possono essere ricondotti nell’alveo dei beni comuni e quindi ben possono assumere la relativa natura giuridica in caso di approvazione di una legge che riconosca tali beni.

Si apre qui un delicato problema. Secondo la proposta di legge, oramai depositata in Cassazione, “quando titolari sono  persone giuridiche pubbliche,i beni comuni sono gestiti da soggetti pubblici e sono collocati fuori commercio; ne è consentita la concessione nei soli casi previsti dalla legge e per una durata limitata, senza possibilità di proroghe”.  Una norma di questo genere sancirebbe la fine, sia pure non immediata, dell’esperienza di Mondeggi e delle altre simili che si svolgono su beni pubblici. Occorre pertanto che nel corso di approvazione della proposta il Parlamento modifichi quella norma in maniera tale da evitare la chiusura di queste esperienze. Con questa modifica, nel caso di Mondeggi, la Città Metropolitana di Firenze resterà proprietaria della fattoria e in quanto tale potrà, trattandosi di bene fruttifero, pretendere un canone (che comunque dovrà essere equo) e potrà anche alienarla, ma il proprietario, chiunque esso sia, non potrà in alcun modo intaccare l’esperienza di autogoverno che si è sviluppata in questi anni.

In conclusione l’irrompere dei beni comuni sulla scena sociale e istituzionale e nel dibattito culturale, testimoniato da esperienze di grande valore civile e politico, fa emergere quel “nuovo paradigma” (Rodotà) che segna la fuoriuscita della tematica dei beni dai confini tradizionali caratterizzati da logiche puramente proprietarie e mercantili. La proposta di legge, certamente  espressione di questo nuovo paradigma, è dunque una proposta  neoliberista? È assente in essa il ridimensionamento dell’attuale regime della proprietà privata? Rischia di favorire processi di privatizzazione incontrollabili nell’attuale fase politica?  Sono interrogativi retorici che dovrebbero far riflettere Fassina e gli altri critici e indurli a rendersi conto, di fronte alla straordinaria portata dei beni comuni, della necessità di uno sforzo congiunto per affrontare il percorso che porta al loro riconoscimento.

È uno sforzo particolare perché non si tratta soltanto di raggiungere le cinquantamila firme necessarie per la presentazione della proposta, ma occorre anche dar vita a un grande movimento che abbia la forza di spingere il Parlamento ad approvarla – con le modifiche necessarie – e successivamente di controllare che all’approvazione seguano coerenti decreti delegati e che a questi ultimi venga data concreta attuazione, nella convinzione che la legge potrà rappresentare un sicuro punto di riferimento per una questione che ha valenza planetaria.

Non è dunque tempo per dividersi.

di Carlo Alberto Graziani, giurista e primo presidente del Parco nazionale Monti Sibillini