Basta con la retorica dell’emergenza maltempo, dobbiamo affrontare la crisi climatica in corso

Negli ultimi vent’anni l’Italia ha speso circa il quadruplo per “riparare” i danni del dissesto idrogeologico rispetto a quanto investito per prevenirli

[18 Novembre 2019]

Dopo l’alta marea che ha affogato Venezia, e le alluvioni che hanno colpito prima il sud e poi il centro Italia – la Giunta toscana ha appena dichiarato lo stato di emergenza regionale – è evidente come sia sempre più improprio parlare di semplice emergenza maltempo: l’impatto crescente della crisi climatica in corso sul territorio nazionale rappresenta un fenomeno strutturale e come tale va riconosciuto, per poter ambire a mettere in sicurezza il Paese.

L’ultimo rapporto Dissesto idrogeologico in Italia, realizzato dall’Ispra, mostra che 7.275 comuni (il 91% del totale) sono a rischio per frane e/o alluvioni, e che il 16,6% del territorio nazionale è classificato a maggiore pericolosità; oltre 6 milioni di abitanti vivono già oggi in zone a pericolosità idraulica nello scenario medio (ovvero alluvionabili per eventi che si verificano in media ogni 100-200 anni), e l’avanzata dei cambiamenti climatici porta con sé un aumento degli eventi meteorologici estremi coi quali stiamo solo iniziando a fare i conti. Se a Venezia le emergenze legate all’acqua alta sono raddoppiate rispetto agli anni ’90, solo nell’arco del 2018 si contano 148 eventi meteo estremi che hanno flagellato il Paese.

Sempre il 2018 ha rappresentato (finora) l’anno più caldo da oltre due secoli per l’Italia, con un aumento della temperatura media globale rispetto al periodo 1961-1990 pari a +0,98°C a livello mondiale e +1,71°C nel nostro Paese, che di fatto si trova tra quelli più colpiti dal riscaldamento globale in corso. Solo che ancora non se n’è reso conto.

Per contrastare la tendenza in atto sono infatti due i pilastri sui quali possiamo contare per un’azione incisiva: ridurre le emissioni climalteranti per mitigare i cambiamenti climatici, e aumentare la resilienza del territorio per adattarsi a quella parte di cambiamento del clima ormai inevitabile. Eppure l’Italia non sta facendo grandi progressi su nessuno dei due fronti, anzi.

Per quanto riguarda le emissioni di gas serra, in Italia non diminuiscono da cinque anni: erano pari a circa 426 Mt di CO2eq nel 2014, lo stesso dato registrato nel 2018, con l’Ispra che stima ulteriori aumenti nell’anno in corso. Anche il Piano nazionale integrato energia e clima (Pniec) che dovrà essere approvato entro fine anno mostra un livello d’ambizione ampiamente insufficiente, con un modesto target di riduzione delle emissioni al 2030 (-37% circa) rispetto a quello cui si sta avviando l’Ue (-50%).

E se questo è lo stato dell’arte nella mitigazione ai cambiamenti climatici, sul fronte dell’adattamento va anche peggio. Due anni e mezzo fa è stato sottoposto a consultazione pubblica il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici (Pnacc), ma da allora del documento si sono perse le tracce.

Per non rimanere bloccati nella retorica della “emergenza maltempo” occorre sapere a cosa l’Italia sta andando incontro: nel peggiore dei casi, ovvero quello in cui si contemplano «i danni da eventi alluvionali nel contesto emissivo più elevato», il Pnacc stima che «nel 2050 le perdite annue sono comprese tra 4.5 e 11 miliardi e tra i 14 e i 72 miliardi nel 2080, a seconda dello scenario di sviluppo economico considerato». Senza dimenticare che «i danni diretti, non considerati nello studio citato, di solito sono tra le due e le tre volte più consistenti degli effetti sul Pil», arrivando fino all’incredibile cifra di 288 miliardi di euro. Uno scenario catastrofico, che stiamo continuando colpevolmente a ignorare.

Eppure prevenire permetterebbe di attivare investimenti virtuosi in green economy, sostenere posti di lavoro qualificati e infine conseguire cospicui risparmi in termini di finanza pubblica: al proposito Legambiente osserva che dal 1998 al 2018 l’Italia ha speso circa 5,6 miliardi di euro (300 milioni all’anno) in progettazione e realizzazione di opere di prevenzione del rischio idrogeologico, a fronte di circa 20 miliardi di euro spesi per “riparare” i danni del dissesto (un miliardo all’anno in media, considerando che dal 1944 ad oggi sono stati spesi 75 miliardi di euro).