Cecilia 2050: qual è il prezzo giusto per la libertà (dai gas serra)?

Carbon pricing e politica ambientale per trainare l'Europa fuori dall'era dominata dai combustibili fossili

[19 Ottobre 2015]

Si è appena concluso a Roma il progetto europeo Cecilia 2050, che per tre anni ha riunito ricercatori provenienti da 10 paesi per plasmare la strada che dovrà portare il l’Unione a tagliare un traguardo di capitale importanza: ridurre dell’80-95% le emissioni di gas serra rispetto ai livelli del 1990. Un obiettivo che l’Europa stessa ha assunto, e che unisce la lotta ai cambiamenti climatici con la costruzione di un modello economico più sostenibile.

Presso il dipartimento di Economia all’Università degli Studi di Roma Tre, dove si è svolto il convegno conclusivo di Cecilia 2050, hanno trovato un comune terreno di confronto attori istituzionali (come l’economista Aldo Ravazzi Douvan, del ministero dell’Ambiente), imprenditoriali (Gianluca Rusconi, per Confindustria), che si sono confrontati con alcuni membri del Centro di ricerca interuniversitario Seeds: Salvatore Monni, Alessio D’Amato e Massimiliano Mazzanti.

«Il convegno ha affrontato il tema del carbon pricing (prezzo del carbonio, ndr), sottolineando da un lato la necessità di estendere la sua applicazione mediante riforme fiscali ecologiche che riducano il peso fiscale sul lavoro e sulla produzione di innovazione. D’altra parte si nota – ci spiega Massimiliano Mazzanti, membro del think tank di redazione, Ecoquadro, e direttore del Seeds – che per raggiungere gli obiettivi 2030 e 2050 di riduzione delle emissioni il carbon pricing non è sufficiente Molti settori cruciali per raggiungere gli obiettivi sono meno ‘adatti’ all’imposizione di tasse o uso dei permessi rispetto a quelli industriali. È necessario modificare la tecnologia ma unitamente anche i comportamenti sociali, e integrare politiche economiche con azioni di planning innovativo dei centri urbani».

Durante l’evento conclusivo di Cecilia 2050 è stato ribadito il ruolo centrale dell’innovazione, e soprattutto delle «complementarietà tra varie tipologie di innovazioni, della loro eterogeneità tra settori»: una carbon tax a monte rimane un’opzione credibile e robusta. Si fissa un prezzo, ottimale o meno che sia, e si lascia alle imprese la decisione su quale tecnologia o strategia complessiva utilizzare. In alcuni casi, però, potrebbe essere utile pensare a interventi diversi, formulati ad hoc.

Per quanto riguarda invece la politica europea di emission trading, più volte messa in discussione in passato, dalle analisi presentate è risultata comunque importante come determinante delle strategie dei settori industriali finora, anche se occorre attendere una fase economica più stabile per giudicarne pienamente l’efficienza ed efficacia. Maggiore crescita economica e minore offerta di permessi stimoleranno i prezzi, oggi in aumento al livello di 8€ per tonnellata di CO2. Importante sarà capire come gestire il gettito crescente che deriverà dalle aste dei permessi, già oggi pari a qualche miliardo di euro in Europa. Occorre trasparenza sulle varie opzioni: riduzione del debito, supporto all’innovazione, taglio del costo del lavoro, etc». Senza dimenticare che il ruolo della fiscalità ambientale non si riduce al solo oggetto delle emissioni climalteranti: l’Ocse, che insieme al Fondo monetario internazionale ha incrementato l’analisi dei vari processi di sostegno al carbon pricing in vista della Cop 21 di Parigi, non manca infatti di osservare «come vi sia un forte divario tra il livello delle tassazioni su energia e trasporti rispetto a quella su ambiente e risorse. Oltre a sgravare il lavoro mediante maggiore tassazione ambientale, un’opzione aggiuntiva è riequilibrare il peso relativo di tasse energetiche ed ambientali».

Sul piano dello sviluppo industriale, infine, si è notato come «la caratteristica peculiare di molti sistemi economici italiani, composti da un 90% e più di Pmi, possa risultare penalizzante per le dinamiche della green economy, essendo gli investimenti in tutela ambientale e R&S più elevati nelle grandi imprese, le quali perseguono obiettivi ambientali non primariamente per ragioni di costo, ma anche per ottenere consenso sociale. Tra le barriere agli investimenti si registrano l’accesso a risorse finanziarie, la scarsa coerenza tra strategie nazionali e regionali, lo scarso assorbimento di conoscenza delle Pmi da fonti esterne quali centri di ricerca e altre imprese estere. Nella green economy, internazionalizzazione, dimensione di impresa e cooperazione tra imprese sono fattori fondamentali sia sul lato meramente economico ma anche per le performance ambientali. Le ricchezze e potenzialità delle dimensioni ‘local’ e ‘global’ – osserva dunque Mazzanti – vanno entrambe utilizzate in modo sinergico e non conflittuale».

Da questo punto di vista, si conserva la necessità politica di un ruolo d’indirizzo per lo sviluppo sostenibile, ma è proprio la politica a remare talvolta in senso contrario. «Posto il deficit di forma mentis economica nelle attuali politiche ambientali – conclude Mazzanti – si ritiene fondamentale un approccio inter-disciplinare, massimizzando le complementarietà tra gli strumenti di politica».