Gli scarti aumentano più velocemente del Pil e l’export cresce del 13,7%

Crescono i rifiuti speciali prodotti in Italia, mentre calano gli impianti per gestirli

I dati Ispra smontano l’illusione dell’impatto zero: le operazioni di risanamento e trattamento rifiuti rappresentano la seconda voce di produzione di rifiuti speciali

[27 Maggio 2020]

Nel 2018 l’Italia ha prodotto 173,7 milioni di tonnellate di rifiuti: 30,2 milioni di tonnellate sono rifiuti urbani, prodotti in primis nelle nostre case, mentre le rimanenti 143,5 milioni di tonnellate – come mostra il XIX Rapporto rifiuti speciali pubblicato ieri dall’Ispra – non siamo abituati a vederle. Eppure i rifiuti provenienti da attività industriali, commerciali, sanitarie eccetera rappresentano oltre tre quarti del totale. Il problema è che mentre i rifiuti prodotti continuano a crescere più velocemente del Pil, abbiamo a disposizione sempre meno impianti per gestirli in sicurezza.

I dati messi in fila dall’Ispra rappresentano la più accurata approssimazione del fenomeno disponibile (è frutto di stime il 44,9% della quantità complessiva dei rifiuti speciali), sufficiente per mettere a fuoco i trend in corso. Nel 2018 la produzione aumenta del 3,3% (circa 4,6 milioni di tonnellate) rispetto all’anno precedente, mentre gli impianti di gestione dei rifiuti speciali operativi segnano un netto calo: nello stesso periodo passano da 11.209 a 10.813 (di cui 6.232 situati al Nord, 1.880 al Centro e 2.701 al Sud).

È bene sottolineare che questo non sottende una gestione dei rifiuti speciali disastrosa, tutt’altro. Per i rifiuti speciali in Italia il recupero di materia è la forma di gestione predominante con il 67,7% (103,3 milioni di tonnellate); le operazioni di smaltimento rappresentano circa il 19,3% (30,7 milioni di tonnellate, di cui 11,9 milioni di tonnellate in discarica), mentre appaiono residuali il coincenerimento (1,3%), l’incenerimento (0,8%).

Gli stoccaggi rappresentano però sono sempre al 10,9% – tra “Messa in riserva” (16 milioni di tonnellate) e “Deposito preliminare” (602 mila tonnellate) – a testimoniare un’insufficiente capacità di gestione dei rifiuti prodotti; lo stesso vale per l’export, che riguarda 3,5 milioni di tonnellate ovvero il 2,4% della produzione totale di rifiuti speciali. Rispetto al 2017 il quantitativo totale esportato fa registrare un aumento del 13,7%, in particolare i rifiuti speciali pericolosi aumentano di oltre 261 mila tonnellate (+26,7%) e i rifiuti speciali non pericolosi di circa 159 mila tonnellate (+7,6%).

Cifre apparentemente piccole rispetto al totale, ma che rappresentano spie d’allarme per settori fondamentali dell’economia circolare nazionale.

Da dove arrivano infatti i rifiuti speciali prodotti in Italia? La prima fondamentale distinzione è tra rifiuti speciali non pericolosi (133,5 milioni di tonnellate) e pericolosi (10 milioni di tonnellate). Più nel dettaglio, dal settore costruzioni e demolizioni arriva il 42,5% del totale prodotto, seguito dalle attività di trattamento dei rifiuti e di risanamento – ad esempio, le bonifiche – con oltre 38 milioni di tonnellate (26,5% del totale) e dall’insieme delle attività manifatturiere (20%).

A leggerli bene, questi dati smontano definitivamente l’illusione dell’impatto zero. Anche dall’economia circolare esitano nuovi scarti, tanto che la gestione rifiuti e il risanamento rappresentano la seconda voce di produzione di rifiuti speciali (al proposito è utile ricordare anche che 10,5 milioni di tonnellate di rifiuti speciali derivano dal trattamento di rifiuti urbani).

Eppure questi rifiuti facciamo fatica ad accettarli. E infatti prendono spesso la via dell’export. Come già accennato il ricorso all’estero è in grande crescita nel 2018, e il 57% dei rifiuti esportati – soprattutto in Germania – sono “rifiuti prodotti da impianti di trattamento dei rifiuti, impianti di trattamento delle acque reflue fuori sito nonché dalla potabilizzazione dell’acqua e dalla sua preparazione per uso industriale”.

Un caso ormai tristemente celebre è quello dell’amianto. I rifiuti contenenti amianto prodotti in Italia sono pari, nel 2018, a 296 mila tonnellate; un dato collegato allo smantellamento dei manufatti e alle bonifiche, e non a caso in calo del 9,6% sull’anno. Le bonifiche non si fanno, infatti, anche perché non ci sono discariche dove smaltire in sicurezza i rifiuti contenenti amianto: sono ben 69 mila le tonnellate di queste rifiuti che vengono esportate per essere smaltite, a caro prezzo, praticamente tutte in Germania.

Da una parte dunque c’è l’Italia delle eccellenze industriali, che da sempre in un’ottica d’efficienza spinge per re-immettere nei cicli produttivi i propri scarti. Dall’altra c’è un Paese che non solo è incapace a disaccoppiare crescita del Pil e produzione di rifiuti – il rapporto Ispra testimonia a partire dal 2011 un «progressivo allontanamento» dagli obiettivi fissati dal relativo Programma nazionale di prevenzione – ma non riesce neanche a chiudere il cerchio dell’economia circolare sul proprio territorio, soffocato dalle sindromi Nimby e Nimto che bloccano la realizzazione di nuovi impianti. È giunto il momento di scegliere da che parte stare.