Crisi ambientali e migrazioni forzate, la faccia nascosta del cambiamento climatico

Un rapporto di A Sud indaga oltre la retorica delle “ondate”, andando alle origini dei più vasti flussi migratori

[5 Agosto 2016]

Secondo i dati raccolti dall’Organizzazione mondiale per le migrazioni (Oim), dall’inizio di quest’anno sono 4.027 i migranti deceduti in mare nella loro traversata verso l’Europa: il Mediterraneo ha inghiottito i tre quarti dei morti (3.120), segnando un drammatico +26% rispetto allo stesso periodo del 2015. In tutto sono invece 257.186 i migranti e rifugiati che sono riusciti a mettere piede nel Vecchio continente, quest’anno. Si tratta di numeri tristemente significativi, ma quelli forniti dall’Oim rappresentano solo una piccola parte delle migrazioni in corso nel mondo, molte delle quali finiscono fuori dai radar occidentali. Al contrario, dedicargli la giusta attenzione ci permetterebbe di capire meglio anche le dinamiche che sottendono all’arrivo dei migranti sulle nostre coste.

Il rapporto Crisi ambientale e migrazioni forzate – l’ondata silenziosa oltre la fortezza Europa, elaborato da Associazione A Sud – CDCA Centro Documentazione Conflitti Ambientali, offre uno spaccato dettagliato proprio su queste migrazioni “nascoste”. La retorica delle “ondate” utilizzata ciclicamente nella narrazione mediatica dei flussi migratori diretti verso l’Europa e connessi a guerre, persecuzioni politiche e povertà estrema nei Paesi d’origine, cela una realtà diversa e più complessa – spiegano infatti da A Sud – I dati Unhcr 2014-2015 stimano un numero di rifugiati nel mondo compreso tra i 14 e i 15 milioni ma ospitati in grandissima parte da Paesi extraeuropei. Ci sono però migrazioni forzate che non fanno rumore, perché difficili da quantificare, non tutelate dal diritto internazionale: rientrano in questa dimensione  40,8 milioni di sfollati interni, il doppio dei rifugiati.

«La migrazioni ambientali – precisano da A Sud – sono in gran parte migrazioni interne ed è qui che dobbiamo cercare numeri, cause e responsabilità. Nel 2015, guerre, violenze e disastri naturali hanno prodotto 27,8 milioni di sfollati interni nel mondo. Di questi, 19,2 milioni per calamità naturali. Più del numero dei rifugiati in un anno. Le migrazioni interne sono quindi in buona parte migrazioni ambientali. Negli ultimi otto anni è stato registrato un totale di 203,4 milioni di sfollati interni collegati a disastri e calamità naturali. Tra le aree più colpite l’India (3,7 milioni di sfollati), la Cina (3,6 milioni) e il Nepal (2,6 milioni). A disastri e calamità naturali bisogna però aggiungere le migrazioni forzate per cause ambientali più direttamente connesse a fattori di origine antropica. Queste rimangono spesso off the grid ed estranee a statistiche generali perché difficili da quantificare e perché si tratta di migrazioni forzate dovute a più cause interagenti e a lenta insorgenza. Siccità e progetti di sviluppo, ad esempio, soprattutto dighe, progetti di sviluppo urbano e mega eventi, sono all’origine di decine di milioni di sfollati seppur diluiti nel tempo e interagendo con altre concause naturali o antropiche».

Comprendere le migrazioni ambientali è importante anche perché, oltre a continuare a crescere in dimensione nel prossimo futuro, allargheranno anche il loro impatto geografico. Non più concentrate in larga maggioranza tra gli sfollati interni, quanti verranno colpiti da calamità naturali diventeranno loro malgrado migranti. Come abbiamo contribuito a documentare anche su greenreport (molti dei nostri articoli sono citati anche all’interno del rapporto di A Sud, un apporto del quale siamo orgogliosi), secondo l’Onu già oggi – guardando indietro – scopriamo che il 90% delle catastrofi verificatesi negli ultimi vent’anni sono legate a cause climatiche; sempre i cambiamenti climatici potrebbero addirittura rendere «inabitabili per l’uomo» parte del Nord Africa e del Medio Oriente, con ondate di calore che quintuplicheranno in frequenza di qui al 2050 contribuendo – stavolta l’analisi è del Max Planck Institute – sicuramente «alla pressione migratoria».

Una tendenza che non riguarda solo “l’altro”. Il clima che cambia sta mettendo a dura prova anche gli equilibri ecosistemici che caratterizzano il nostro Paese, con l’Italia del centro-nord che viene citata dalla Noaa (National oceanic and atmospheric administration) tra le aree soggette a riscaldamento climatico «molto accentuato». Investire in resilienza, ridurre e rendere più efficiente l’utilizzo delle risorse naturali e favorire l’integrazione rimane una ricetta valida a qualsiasi latitudine del globo: viviamo tutti sullo stesso pianeta.