Durante una pandemia il distanziamento sociale difende l’economia, non la uccide

Ricercatori della Federal Reserve degli Stati Uniti e del MIT di Boston mostrano cosa accadde durante l’influenza spagnola del 1918, offrendo una bussola per la gestione della crisi sanitaria (ed economica) in corso

[27 Marzo 2020]

La pandemia da coronavirus Sars-Cov-2 continua a macinare troppi contagi, troppe vittime perché l’Italia possa ancora vedere all’orizzonte una data precisa in cui iniziare ad allentare le draconiane misure di contenimento messe in atto per mantenere il distanziamento sociale: la ministra dell’Istruzione ha dichiarato oggi che le scuole non riapriranno il 3 aprile, una notizia che non depone a favore per altre attività. Nel frattempo però le previsioni economiche sull’impatto della pandemia si fanno sempre più catastrofiche: un mese fa il governatore di Bankitalia prospettava un impatto sul Pil pari allo 0,2%, oggi Prometeia è arrivata a prevedere per il 2020 una contrazione del 6,5% (e Goldman Sachs si è spinta fino a un -11,6%). L’unico dato certo rimane l’incertezza, ma è chiaro che sarà un tracollo e ci si interroga su come limitarlo. Ma “riaprire tutto” nel più breve tempo possibile, oltre a mettere a rischio migliaia di vite umane, non sembra avere senso neanche dal punto di vista economico.

Nello studio Pandemics Depress the Economy, Public Health Interventions Do Not: Evidence from the 1918 Flu, pubblicato ieri da due economisti della Federal Reserve degli Stati Uniti e da un ricercatore del MIT di Boston, si tenta un parallelo tra l’epidemia da coronavirus in corso e l’influenza spagnola che un secolo fa contagiò mezzo miliardo di persone – 1/3 della popolazione globale – uccidendone almeno 50 milioni, soprattutto adulti giovani (18-44 anni) e in salute. Un’importante differenza rispetto al Covid-19, di certo non l’unica e non solo sotto il profilo sanitario: la catene globali del valore e le strutture socio-economiche odierne sono molto differenti rispetto a quelle che regolavano il mondo cento anni fa, ma è importante capire cosa accadde allora per provare a trarne oggi una lezione utile.

Allora l’influenza spagnola colpì in tre differenti ondate: nella primavera del 1918, nell’autunno dello stesso anno e tra l’inverno e la primavera del 1919. Il Pil dei Paesi colpiti crollò in genere del 6-8%, e negli Usa si portò via il 18% della produzione manifatturiera. Non tutti gli Stati e le città Usa però reagirono allo stesso modo di fronte al pericolo sanitario, un elemento che ha dato origine anche a diverse ricadute economiche sul territorio.

«Quali sono le conseguenze economiche di una pandemia di influenza? E data la pandemia, quali sono i costi e i benefici economici degli interventi non farmaceutici (Npi)?», si chiedono gli autori osservando che «quelli implementati nel 1918 somigliano a molte delle politiche utilizzate per ridurre la diffusione del Covid-19, tra cui la chiusura di scuole, teatri e chiese, divieti di assembramenti pubblici e ai funerali, quarantena dei casi sospetti e orari di lavoro limitati».

Allora le aree che furono più esposte alla pandemia subirono «un forte e persistente declino dell’attività economica», a causa di una recessione che colpì sia la domanda sia l’offerta di beni e servizi. Il punto focale della ricerca mostra però che «l’economia ha ottenuto risultati migliori nelle aree con interventi più aggressivi» in termini di Npi: «Le città che sono intervenute prima e in modo più aggressivo – spiega lo studio – non hanno prestazioni peggiori e, semmai, crescono più velocemente dopo che la pandemia è finita. I nostri risultati indicano quindi che gli Npi non solo riducono la mortalità, ma mitigano anche le conseguenze economiche negative di una pandemia».

Ad esempio, nei casi osservati nello studio, riguardanti 30 degli Stati Uniti, reagire «10 giorni prima dell’arrivo della pandemia in una determinata città aumenta l’occupazione manifatturiera di circa il 5% nel periodo post epidemico», e dove questi Npi sono stati mantenuti più a lungo il rimbalzo economico è stato maggiore: «50 giorni addizionali aumentano l’occupazione manifatturiera del 6,5% dopo la pandemia». Un contenimento sanitario più efficace, in altre parole, ha permesso all’economia di tornare alla “normalità” più in fretta una volta passata l’epidemia, acquistando così un vantaggio competitivo rispetto ai territori più martoriati.

Tutto questo, naturalmente, non significa che oggi sia opportuno ricalcare tal quali le modalità di contenimento adottate un secolo fa. Anche perché nel frattempo, come sembra mostrare l’ormai noto esempio di Paesi come la Corea del sud – che stanno contenendo l’epidemia senza ricorrere a lockdown estesi sul territorio – grazie alla moderna tecnologia si sono resi disponibili metodi di sorveglianza attiva dei contagiati impensabili nel 1918. Per poter pensare di implementarli anche sul nostro territorio, opportunamente adattati al diverso contesto socio-culturale, dobbiamo però riuscire prima a contenere il tasso di crescita dei contagi affinché il Sistema sanitario nazionale possa riuscire a reggerne l’urto: nel frattempo è indispensabile predisporre gli strumenti economici necessari (come gli eurobond a livello europeo), sia al sostegno delle famiglie e delle imprese colpite dell’emergenza sia per guidare la ripresa economica non appena le condizioni sanitarie lo renderanno possibile. Non per tornare alla “normalità”, ovvero al modello di sviluppo fatto di accaparramento delle risorse, deforestazione, distruzione della biodiversità, crisi climatiche e disuguaglianze che anno dopo anno rende sempre più probabile l’urto di pandemie come quella in corso: l’orizzonte di un Green new deal oggi non è da accantonare, ma la nostra migliore e forse unica opportunità per poter rinascere.