Il governo nascente tra M5S e Pd punta al Green new deal, ma ancora non si sa come

Nelle linee programmatiche l’accento sullo sviluppo sostenibile è più marcato rispetto al “contratto” stipulato a suo tempo con la Lega, ma rimane tutto da definire

[3 Settembre 2019]

Oltre 50mila militanti del Movimento 5 Stelle (su 115mila totali, contro gli oltre 51 milioni di aventi diritto al voto in Italia) hanno già espresso la propria preferenza sulla piattaforma Rousseau, per dare o meno il proprio via libera al nascente governo tra M5S e Pd, e nel mentre i pentastellati hanno pubblicato sul blog un documento (disponibile qui o in allegato, ndr) che riassume le linee programmatiche sulle quali si basa questo matrimonio politico: 26 punti riassunti in poco più di due pagine, un format dunque molto lontano rispetto alle 58 pagine del “contratto di governo” stipulato con la Lega lo scorso anno. In questa nuova bozza di programma è più marcata l’attenzione dedicata allo sviluppo sostenibile, ma la vaghezza con cui viene affrontata la tematica al momento è rimasta la stessa.

I punti 5, 6 e 19 sono quelli in cui vengono affrontati esplicitamente temi di valenza “ambientale” in senso lato. Al punto 5 si afferma che “occorre realizzare un Green New Deal, che comporti un radicale cambio di paradigma culturale e porti a inserire la protezione dell’ambiente tra i principi fondamentali del nostro sistema costituzionale. Tutti i piani di investimento pubblico dovranno avere al centro la protezione dell’ambiente, il ricorso alle fonti rinnovabili, la protezione della biodiversità e dei mari, il contrasto dei cambiamenti climatici. Occorre adottare misure che incentivino prassi socialmente responsabili da parte delle imprese. Occorre promuovere lo sviluppo tecnologico e le ricerche più innovative in modo da rendere quanto più efficace la “transizione ecologica” e indirizzare l’intero sistema produttivo verso un’economia circolare”; il punto 6 recita che “Occorre potenziare le politiche sul dissesto idrogeologico, per la riconversione delle imprese, per l’efficientamento energetico, per la rigenerazione delle città e delle aree interne, per la mobilità sostenibile e per le bonifiche. Bisogna accelerare le procedure di ricostruzione delle aree terremotate”, mentre per il punto 19 “Occorre tutelare i beni comuni, come la scuola, l’acqua pubblica, la sanità. Anche le nostre infrastrutture sono beni pubblici ed è per questo che occorre avviare la revisione delle concessioni autostradali”.

Per come sono state poste, difficile per chiunque dirsi contrario a queste esigenze. Tutto dipenderà però da come verranno perseguite: i 14 mesi di governo tra M5S e Lega non hanno fatto bene allo sviluppo sostenibile del Paese, e sarà indispensabile non ripetere gli stessi errori.

Nella bozza di programma si torna ad esempio a parlare di economia circolare, mentre di fatto il governo gialloverde ha prodotto uno stallo totale sulla normativa End of waste, che rappresenta ancora oggi un freno a mano tirato per l’economia circolare italiana tanto da lasciar presagire alle imprese di settore una «devastante crisi del sistema rifiuti in Italia»; questo sarà uno dei primi punti sui quali intervenire per invertire la rotta, mentre la fatwa (ri)lanciata nei giorni scorsi da Luigi Di Maio – ma sparita oggi dalla bozza di programma – contro i termovalorizzatori rappresenta solo una presa di posizione ideologica, dato che non porta a supporto nessuna valutazione complessiva sul ciclo integrato dei rifiuti a livello nazionale.

Un rischio speculare corre sul filo dell’acqua pubblica, che rimane nella bozza di programma governativo ma che è stato finora affrontato dal M5S con il ddl Daga, che di fatto ha conseguito l’unico risultato di mettere a rischio i progressi finalmente conseguiti negli ultimi anni in termini di investimenti nel settore idrico.  L’acqua in Italia è sempre stata pubblica e già oggi il 97% della popolazione italiana è servita da soggetti pubblici o in maggioranza pubblici: il grande problema è semmai che la rete perde 4,5 miliardi di metri cubi d’acqua potabile l’anno, una ferita per sanare la quale occorrono una gestione efficiente del servizio e investimenti mirati.

Anche per quanto riguarda energie rinnovabili ed efficienza energetica ci sarà da cambiare passo: nel giorno in cui dal Cnr riscontrano «eccessi di mortalità per tutte le cause» legate alla centrale a carbone di Vado Ligure occorre accelerare il phase-out da questa fonte fossile (impostato al 2025) e spingere l’acceleratore sulle fonti pulite, eppure il Piano integrato energia e clima, per come sta definendosi, non arriva neanche a un terzo dell’impegno necessario a raggiungere gli obiettivi assunti dall’Italia con la ratifica dell’Accordo di Parigi; il Piano di adattamento ai cambiamenti climatici è rimasto chiuso in un cassetto dal 2017; sono arrivati i nuovi incentivi (attesi dal 2016) per la produzione di energia elettrica da rinnovabili attraverso il decreto Fer 1, che ha però escluso una fonte come la geotermia che è stata coltivata per la prima volta in Italia e sulla quale ancora oggi il Paese vanta una leadership tecnologica a livello globale.

Per concretizzare quel Green New Deal citato al punto 5 nelle linee programmatiche del nuovo governo non basta dunque augurarselo, ma mettere in campo una politica industriale pragmatica, che sappia unire la sostenibilità ambientale a quella sociale ed economica. Per farlo occorre abbandonare il terreno di scontro ideologico ed esplorare invece quello delle risorse necessarie agli investimenti. Dalla rimodulazione ecologica dell’Iva a un fisco più verde (con una potenzialità stimata dalla Eea in 25 miliardi di euro/anno per il nostro Paese), passando per la carbon tax (8 miliardi di euro/anno) ai 19,3 miliardi di euro/anno di sussidi ambientalmente dannosi stimati dal ministero dell’Ambiente, fino a ipotizzare 6-9 miliardi di euro l’anno di gettito aggiuntivo se M5S e Pd volessero rispolverare la legalizzazione della cannabis, gli spunti di certo non mancano: occorre però la volontà politica per perseguirli.