Il petrolio dell’Arabia saudita si scopre vulnerabile, per difenderci servono più rinnovabili

Il Piano energia e clima proposto dal primo Governo Conte prevede che tra dieci anni i prodotti petroliferi «rappresenteranno comunque il 31% del totale del fabbisogno energetico nazionale». Ma ritardare gli obiettivi di sostenibilità continua ad esporci anche ai rischi geopolitici

[17 Settembre 2019]

Dopo gli attacchi che hanno fatto esplodere gli impianti di Abqaiq e Khurais, rivendicati dai combattenti Houthi, l’Arabia saudita si è trovata di colpo con una produzione di petrolio dimezzata, il che significa il 5-6% della produzione mondiale di greggio in meno. Può non sembrare molto, ma come spiegano dall’Unione petrolifera italiana «uno degli ammanchi maggiori della storia, equiparabile solo a quello registrato nel 1973-74 in occasione della guerra del Kippur, a seguito della rivoluzione iraniana nel 1978- ’79 e della guerra Iraq-Iran nel 1980-81, quando i prezzi nel giro di poco tempo praticamente raddoppiarono».

Questo significa che la Settimana europea per la mobilità (sostenibile) inaugurata ieri avrebbe potuto aprirsi nostro malgrado con una riedizione delle prime “domeniche a piedi”, che l’Italia scoprì proprio nel 1973 a seguito dell’embargo petrolifero imposto dall’Opec. Ci siamo invece limitati al consueto convegno del ministero dell’Ambiente – «L’obiettivo è la decarbonizzazione, una necessità. Oggi l’Italia è pronta per un salto di qualità», ha dichiarato il ministro Costa –, ma il rischio non è rimosso. A differenza di 46 anni fa oggi la produzione di petrolio non è più esclusivamente concentrata nell’area Opec, con gli Usa primo produttore mondiale e la Russia a seguire, e il rischio di crisi petrolifera dopo gli attacchi in Arabia saudita è molto più attenuato. Ciò non toglie che l’Italia rimane ben lontana dall’essere padrona del proprio destino, dal punto di vista energetico: il Piano integrato energia e clima (Pniec) proposto dal primo Governo Conte mostra che in Italia un terzo della domanda di energia primaria viene ancora oggi soddisfatta attraverso il petrolio, e per meno di un quinto dalle rinnovabili. E tra dieci anni si prevede che i prodotti petroliferi «rappresenteranno comunque il 31% del totale del fabbisogno energetico nazionale».

Si tratta, ben inteso, di petrolio importato dall’estero. Anche nell’ultimo anno i consumi petroliferi italiani – arrivati a 7,83 barili a testa – sono infatti cresciuti ancora: sono stati 1.271.000 i barili bruciati ogni giorno, con una crescita doppia rispetto a quella media globale, e il nostro Paese dipende al 92% dalle importazioni. Tutto questo ha riflessi determinanti non solo per quanto riguarda le emissioni italiane di gas serra, che in questo momento stanno crescendo nonostante i vari appelli contro i cambiamenti climatici, ma ci mantiene esposti a rischi geopolitici potenzialmente catastrofici, come quello che ha appena investito l’Arabia saudita. «In un Paese come l’Italia, dove l`85% dei trasporti commerciali avviene per strada – argomentano al proposito dalla Coldiretti – l’impennata del costo del petrolio e il conseguente rincaro dei carburanti ha un effetto valanga sulla spesa con un aumento dei costi di trasporto oltre che di quelli di produzione, trasformazione e conservazione».

«Gli shock energetici – continuano dalla più grande organizzazione agricola europea – aggravano un deficit logistico che è necessario recuperare investendo sulle energie alternative e sbloccando le infrastrutture che migliorerebbero i collegamenti tra Sud e Nord del Paese, ma anche con il resto del mondo». Investire nell’energia pulita e sulla mobilità sostenibile rappresenta una risposta essenziale per affrancarci dai rischi legati all’era del petrolio, e – a rigor di logica – un caposaldo di quel Green new deal più volte preannunciato dal nuovo Governo ma finora rimasto nell’ambito delle buone intenzioni.