Istat, in 20 anni disuguaglianza in Italia è aumentata più che in ogni altra nazione Ocse

Fitoussi interviene a Circonomia: «A rischio la democrazia. Se diminuiamo il capitale naturale, diminuiamo il benessere»

[20 Maggio 2016]

«Se aumenta livello di disuguaglianza è a rischio la democrazia». Sono le parole del celebre economista Jean-Paul Fitoussi davanti al pubblico di Circonomia (qui il video integrale della lectio magistralis), festival dell’economia circolare in corso in Piemonte. Parole rivolte al contesto globale, ma che hanno molto da dire in Italia. Contemporaneamente, a Roma l’Istat ha diffuso i dati del suo 24esimo Rapporto annuale con la conferma di una cattiva notizia: «Una conferma – dettaglia – del progressivo deteriorarsi delle condizioni del mercato del lavoro, e in generale dei meccanismi di formazione dei redditi prima dell’intervento redistributivo dello Stato», che viene dai «dati Ocse sulla disuguaglianza della distribuzione dei redditi (figura a fianco, ndr). Per l’Italia l’indice di Gini calcolato sui redditi di mercato equivalenti è passato tra il 1990 e il 2010 da 0,40 a 0,51, l’incremento più alto tra i paesi per i quali sono disponibili i dati». Un’impennata nella disuguaglianza di reddito – non comprendente dunque la ancor più sensibile disuguaglianza di stampo patrimoniale – che pone seri interrogativi non solo economici, ma anche di qualità della nostra democrazia.

Il Rapporto annuale Istat prova a rispondere così a una domanda importante quanto complessa, producendo però un quadro incompleto. Certamente preoccupante: guardando al mondo del lavoro, nel 2015 gli occupati in Italia risultano 22,5 milioni, 186 mila in più sull’anno (+0,8%, lo stesso incremento del Pil sul periodo). Per la prima volta dal 2008, nel quarto trimestre 2015 sono aumentate anche le posizioni lavorative nella manifattura (+1,2%), ed è salita anche al spesa comune per consumi finali delle famiglie (+0,9%). Eppure, è ancora presto per dire che il peggio è passato, sia dal punto di vista quantitativo sia qualitativo.

La crescita più sostenuta del tasso di occupazione nel 2015 si rileva nella classe di età 50-64 anni (+9,2% rispetto al 2008), quella prossima al pensionamento, mentre i Neet sono aumentati di oltre mezzo milione dall’inizio della crisi (e diminuiti appena di 64mila unità nell’ultimo anno), con il risultato che sono più di 2,3 milioni i giovani di 15-29 anni non occupati e non in formazione, di cui tre su quattro vorrebbero lavorare. Nel mentre la popolazione italiana diminuisce e invecchia, con il numero medio di figli per donna calcolato per generazione continua a decrescere senza soluzione di continuità: nel 2015 vive ancora in famiglia con il ruolo di figlio/a il 70,1% dei ragazzi di 25-29 anni e il 54,7% delle coetanee (erano rispettivamente il 62,8% e 39,8% vent’anni fa), impossibilitati a porre le basi per veder sbocciare una propria, autonoma vita. Osservando la struttura del mercato del lavoro tra il 1993 e il 2015 si nota un aumento della quota di disoccupati in tutte le classi di età, ma in particolare tra i giovani adulti: nel 1993 il picco dell’occupazione maschile, spiega l’Istat, sfiorava il 95% e veniva raggiunto tra i 35 e i 39 anni; nel 2015 questo è oltre dieci punti più basso (83,8%) e viene raggiunto tra i 40 e i 44 anni.

Un accanimento che fa il paio con il trend della partecipazione politica, sia visibile sia invisibile: la partecipazione a comizi, cortei, come il sostegno finanziario o attivo a un partito registra un calo generale ma le generazioni più mature hanno livelli partecipativi sempre più elevati rispetto alle più giovani; la partecipazione “invisibile” che significa anche solo informarsi e parlare di politica è invece in crescita in tutte le generazioni, ma ancora una volta raggiunge i livelli più alti nelle età adulte e avanzate. I più giovani sono dunque pochi, sottorappresentati e paradossalmente auto-esclusi dalla vita politica e dunque dagli indirizzi economici e sociali. In queste condizioni, com’è possibile pensare di costruire un presente e un futuro sostenibile?

«Quando la disuguaglianza è elevata – spiega Fitoussi da Alba – non vale realmente la legge democratica per la quale una persona vale un voto. Al contempo, la domanda di beni e servizi è strutturalmente troppo debole: quello che rimane è la speculazione. La storia ci ha insegnato che abbiamo bisogno di un robusto sistema di protezione sociale, dove il governo fa il suo mestiere: quello di fornire beni pubblici necessari alla vita». C’è molto qui da lavorare in Italia. Secondo l’Istat la spesa per prestazioni sociali è pari al 27,7% del Pil nella media dei Paesi Ue e al 28,6% in Italia, ma – tra quelli europei – il sistema di protezione sociale del nostro Paese è uno dei meno efficaci. Un deficit particolarmente pesante in questi anni di crisi, in quanto – spiega ancora Fitoussi – la «disoccupazione costa molto di più che la sola perdita di reddito dovuta alla mancanza di lavoro, perché ha delle esternalità negative sulla salute fisica e psicologica, sulla partecipazione sociale».

Si riaffaccia qui la necessità stringente di promuovere un nuovo e più sostenibile modello di sviluppo, fatto di redistribuzione e tutela del capitale naturale: «Di quanto capitale naturale non rinnovabile abbiamo bisogno per ottenere l’attuale livello del Pil? Non lo sappiamo – risponde Fitoussi – perché non abbiamo una metrica accettata da tutti per misurare il capitale naturale. Se diminuiamo il capitale naturale, diminuiamo il benessere. Gli istituti nazionali di statistica – esorta l’economista – misurino i fenomeni importanti di cui abbiamo bisogno per avere una buona politica».

Anche l’Istat, che pure dispone di una pioneristica contabilità dei flussi di materia, non ha evidentemente ritenuto necessario porla in evidenza all’interno del proprio Rapporto annuale. È un peccato, ma di certo le condizioni in cui versa l’Istituto non favoriscono una programmazione puntuale del lavoro. Oggi, proprio in occasione della pubblicazione del Rapporto, è stato annullato l’incontro con la stampa: i ricercatori occupano da ieri sera il Centro diffusione dati «per chiedere a governo e amministrazione quale sia la loro determinazione nell’opporsi al processo di dismissione della ricerca pubblica».