L’istruzione si conferma un fattore di competitività

Istat, l’Italia è un paese a povertà stabile

Il disagio diminuisce all’aumentare dell’età: i giovani i più penalizzati

[15 Luglio 2015]

I livelli di povertà in Italia, rilevati dall’Istat nel suo nuovo report, nell’ultimo anno non sono peggiorati: la buona notizia è che dopo 24 mesi di scivoloni consecutivi, per la prima volta c’è una frenata. La cattiva è quella che vede, nel 2014, ben 7 milioni 815 mila individui (il 12,9% dell’intera popolazione) in povertà relativa, e 4 milioni e 102 mila individui (6,8% dell’intera popolazione) in povertà assoluta.

«Dopo due anni di aumento – sottolinea l’Istat –  l’incidenza della povertà assoluta si mantiene sostanzialmente stabile; considerando l’errore campionario, il calo rispetto al 2013 del numero di famiglie e di individui in condizioni di povertà assoluta (pari al 6,3% e al 7,3% rispettivamente), non è statisticamente significativo (ovvero non può essere considerato diverso da zero)».

L’incidenza della povertà assoluta – ricorda l’Istat – viene calcolata sulla base di una soglia corrispondente alla spesa mensile minima necessaria per acquisire il paniere di beni e servizi che, nel contesto italiano e per una determinata famiglia, è considerato essenziale a uno standard di vita minimamente accettabile. Ad esempio, un adulto (18-59 anni) che vive solo è considerato assolutamente povero se la sua spesa è inferiore o pari a 816,84 euro mensili nel caso risieda in un’area metropolitana del Nord, a 732,45 euro qualora viva in un piccolo comune settentrionale e a 548,70 euro se risiede in un piccolo comune meridionale. Per quanto riguarda invece la povertà relativa, sintetizza l’Istat, si fa perno sulla spesa media mensile per persona nel Paese: nel 2014, è risultata di 1.041,91 euro, e dunque le famiglie composte da due persone che hanno una spesa mensile pari o inferiore a tale valore vengono classificate come povere.

Secondo il premier Matteo Renzi le rilevazioni messe in fila dall’Istituto nazionale di statistica dimostrano che «l’Italia ha oggettivamente svoltato, ma c’è ancora tanto da fare. Se manteniamo il ritmo sulle riforme avremo dati di crescita significativi». Gli effetti di tali riforme, finora, sono però stati sistematicamente smentiti dalle rilevazioni sullo stato di salute economico del Paese: sia per quanto riguarda la pressione fiscale, sia per i consumi privati, due dei principali cavalli di battaglia dell’esecutivo. Sebbene segnali in controtendenza fortunatamente inizino a spuntare, ragionevolmente questi rimangono da imputare in gran parte ai noti “fattori esogeni”: quantitative easing della Bce, euro debole, bassi prezzi del petrolio.

Neanche molto sottotraccia, rimangono invece a sanguinare storiche ferite aperte non solo riguardo alla povertà presente in Italia, ma anche alla sua distribuzione. Per la prima volta, come certificato proprio dall’Istat solo pochi giorni fa, le famiglie italiane under35 spendono meno delle over65; oggi, l’Istituto nazionale di statistica rincara la dose sottolineando come l’incidenza della povertà diminuisca «all’aumentare dell’età: dal 14,3% delle famiglie con persona di riferimento under35 all’8% di quelle con capo una persona tra i 55 e i 64 anni».

Nonostante tutto, il nostro rimane uno dei Paesi più ricchi del pianeta: proprio per questo, continuare a ignorare la condizione di profondo disagio nelle fasce più giovani della popolazioni rappresenta una ancor più insensata forma di eutanasia collettiva. Oggi la popolazione italiana è composta da circa 61 milioni di persone, ed è previsto rimanga attorno a questa soglia (per poi calare) per altri 20 anni. Più che i valori assoluti, ad allarmare rimane però la loro suddivisione: gli over60 rappresentano oggi il 28% della popolazione, e saranno il 37% nel 2035. A corollario, è chiaro che le fasce più giovani sono in declino numerico, mentre aumentano i costi sanitari e previdenziali si impennano. Chi li sosterrà?

I demografi offrono svariate analisi a sostegno di altrettanto diverse risposte (quelle recentemente pubblicate su neodemos sono l’ultimo esempio), ma l’Istat offre già oggi almeno una parziale consolazione. «Se il livello d’istruzione della persona di riferimento è basso (nessun titolo o licenza elementare) l’incidenza di povertà – sottolinea infatti l’Istituto – è più elevata (15,4%) ed è quasi tre volte superiore a quella osservata tra le famiglie con a capo una persona almeno diplomata (6,2%)».

Anche nell’Italia dei nostri giorni, dunque, l’istruzione paga. E sono le nuove generazioni a disporre, in media, di titoli di studio più elevati. Investire in conoscenza e offrire a ragazze e ragazzi una prospettiva lavorativa ad alto valore aggiunto, in grado di valorizzare le loro competenze – come è il caso della green economy – permetterebbe di sperare non solo in un presente, ma anche in un futuro più sereno per tutto il Paese.