La direttiva Ue contro la plastica monouso è stata approvata definitivamente

Per il commissario Ue Karmenu Vella «affronterà il 70% dei rifiuti marini, evitando danni ambientali che costerebbero altrimenti 22 miliardi di euro al 2030»

[21 Maggio 2019]

Dopo l’ok arrivato dall’Europarlamento nel marzo scorso oggi anche il Consiglio europeo ha dato il suo ok alla nuova direttiva Ue che introduce restrizioni sui prodotti in plastica monouso: si va da riduzioni al consumo – come nel caso di tazze per bevande e contenitori per alimenti – al divieto di immissione sul mercato per prodotti come bastoncini cotonate, posate, piatti, cannucce, agitatori per bevande e bastoncini per palloncini. Il testo della direttiva (disponibile in allegato, ndr), dopo il via libera formale da parte del Consiglio Ue, ha concluso la sua fase legislativa: ora dovrà essere adottato nella normativa dei singoli Stati membri, a cui è demandata la concreta declinazione della direttiva.

Non si tratta di un passaggio da poco: è in questo contesto, ad esempio, che verrà definito il ruolo delle bioplastiche nell’ambito di applicazione della direttiva. Il testo prevede infatti restrizioni esplicite per prodotti monouso in plastica tradizionale e oxo-degradabile, mentre per quanto riguarda le plastiche biodegradabili si limita a offrire un’indicazione (negativa); per maggiori chiarimenti in proposito la redazione di greenreport ha posto la questione direttamente al Consiglio Ue, dal quale ricordano che (come recita l’art. 2) la presente direttiva “si applica ai prodotti di plastica monouso elencati nell’allegato, ai prodotti di plastica oxo-degradabile e agli attrezzi da pesca contenenti plastica”, e che la definizione di “plastica” data all’art. 3 è quella di “materiale costituito da un polimero quale definito all’articolo 3, punto 5), del regolamento (CE) n. 1907/2006, cui possono essere stati aggiunti additivi o altre sostanze, e che può funzionare come componente strutturale principale dei prodotti finiti, a eccezione dei polimeri naturali che non sono stati modificati chimicamente”. In aggiunta, al punto (11) si specifica che ”la definizione adattata di plastica dovrebbe pertanto coprire gli articoli in gomma a base polimerica e la plastica a base organica e biodegradabile, a prescindere dal fatto che siano derivati da biomassa o destinati a biodegradarsi nel tempo”.

«Riassumendo – spiegano dal Consiglio Ue – la plastica oxo-degradabile (come anche quella tradizionale, naturalmente, ndr) è specificamente inclusa nell’ambito della direttiva. Le plastiche biodegradabili così come definite nell’art. 3.16 non sono specificamente ricomprese nel suo campo d’applicazione, ma il punto (11) chiarisce che la definizione di plastica dovrebbe riguardare anche le plastiche biodegradabili». È in quel dovrebbe che, ad esempio, si misura il grado di libertà nella concreta adozione della direttiva all’interno della normativa dello Stato membro. In ogni caso spetterà poi alla Commissione Ue valutare che la legislazione Ue sia stata implementata correttamente.

Ma qual è, in concreto, lo scopo della direttiva? Il testo nasce in primo luogo per provare a porre un freno all’inquinamento provocato dai rifiuti marini – in larga parte composti da materiali plastici – che ormai affollano i nostri mari. «La direttiva sulla plastica monouso – commenta il commissario Ue all’Ambiente, Karmenu Vella – affronterà il 70% dei rifiuti marini, evitando danni ambientali che costerebbero altrimenti 22 miliardi di euro al 2030».

Un obiettivo da perseguire essenzialmente tramite due pilastri: una riduzione dei prodotti in plastica monouso immessi sul mercato, e un aumento nell’uso di plastica riciclata, che le imprese italiane di settore stanno chiedendo allo Stato di sostenere concretamente, introducendo un credito d’imposta per favorire l’acquisto di prodotti in plastica riciclata. Per le bottiglie in PET ad esempio la direttiva prevede l’obiettivo di intercettare almeno il 90% dell’immesso al consumo entro il 2030 (con un obiettivo intermedio del 77% al 2025) e, sempre per il 2030, quello di garantire che le nuove bottiglie contengano almeno il 30% di materiale riciclato (25% al 2025). Inoltre il principio della responsabilità estesa del produttore viene applicato a prodotti che contengono plastica come filtri del tabacco, palloncini, assorbenti igienici, salviette umidificate e prodotti per la pesca. Per tutti questi oggetti il produttore avrà l’obbligo di coprire i costi di raccolta e quelli del successivo trasporto e trattamento, inclusi i costi di rimozione dei rifiuti e le misure di sensibilizzazione. Infine, per quanto riguarda i rifiuti che vengono portati a riva dai pescatori perché finiscono nelle reti, gli Stati europei dovranno organizzare forme di raccolta presso i porti, sempre con i costi di gestione a carico dei produttori.

«È un passo avanti importante – spiega Stefano leoni, coordinatore scientifico del Circular economy network promosso dalla Fondazione per lo sviluppo sostenibile e da 12 imprese e organizzazioni d’impresa – Il provvedimento ha una notevole forza innovativa: per la prima volta si impone una percentuale minima di utilizzo di materiale riciclato nella fabbricazione primaria dei prodotti. Per ora la soglia stabilita è del 30% al 2030: non è molto ma servirà a sostenere un mercato del materiale riciclato. È auspicabile che questa soglia non solo salga, ma venga introdotta anche per altri prodotti, ad esempio vestiti, arredamento, auto, elettrodomestici, costruzioni. Intanto la palla passa ai governi: in fase di recepimento dovranno fissare quote di riciclo minimo dei rifiuti raccolti relativi ai prodotti quali filtri e prodotti del tabacco, palloncini, assorbenti igienici, salviette umidificate e prodotti della pesca».

Ma se il ri-acquisto di materie prime seconde è un passaggio fondamentale per promuovere una reale economia circolare in Europa (e in Italia), il problema dei rifiuti marini non scomparirà improvvisamente sostituendo le plastiche tradizionali con quelle biodegradabili, come hanno riconosciuto nell’ordine Unep, Novamont, Assobioplastiche e studi indipendenti. Il problema è semplicemente che i rifiuti – non importa se in plastica tradizionale o biodegradabile – non sono fatti per essere gettati all’aria aperta dai cittadini, ma per essere conferiti come rifiuti negli appositi contenitori e dunque avviati a recupero o smaltimento all’interno di un’indispensabile filiera industriale.

La lotta contro l’inquinamento provocato dai rifiuti marini in plastica potrà essere vinta dunque riducendo in primis il quantitativo di prodotti immessi al consumo (al primo posto nella gerarchia Ue dei rifiuti c’è la prevenzione), promuovendo quando possibile il loro riuso e avviando la parte rimanente a recupero/smaltimento. Sostituire la plastica tradizionale con quella biodegradabile rappresenta invece un’occasione per ridurre il consumo di materie prime non rinnovabili (il petrolio da cui si ricava la plastica tradizionale), per promuovere un’eccellenza industriale italiana e per far sì che gli incivili che continueranno a gettare irresponsabilmente i propri rifiuti non creino danni pressoché permanenti all’habitat marino (con il rischio però che più persone partecipino all’incuria, sentendosi deresponsabilizzate da un materiale meno dannoso): non è una panacea contro la piaga dei rifiuti marini.