La lezione dell’Università di Plymouth sulle buste biodegradabili: non esistono pasti gratis

Anche il sacchetto biodegradabile e compostabile è «progettato per essere gestito nel circuito della raccolta dell’umido in appositi impianti industriali», spiegano da Assobioplastiche. Non si tratta di una panacea contro i rifiuti in plastica tradizionale

[30 Aprile 2019]

Un nuovo studio sugli imballaggi biodegradabili condotto dai ricercatori Imogen E. Napper e Richard C. Thompson dell’Università di Plymouth, i cui risultati sono stati divulgati ieri, aiuta a circoscrivere meglio il contributo che questi materiali possono dare nel gestire i nostri rifiuti, e in particolare a ridurre l’inquinamento da plastica, provando a rispondere a una semplice domanda: cosa accade in tre anni a un tipo di sacchetto in polietilene alta densità, due sacchetti oxo-degradabili, un sacchetto con sopra apposta la parola “biodegradabile” e, infine, un sacchetto biodegradabile e compostabile?

Queste buste sono state lasciate esposte all’aria aperta, nel suolo e in mare, ambienti che potrebbero potenzialmente incontrare se scartate – e non correttamente conferite nei rispettivi contenitori per l’immondizia – come rifiuti. Dopo 9 mesi tutte le buste esposte all’aria aperta si erano frammentate in pezzi più piccoli; se interrate o lasciate in mare, le buste biodegradabili, oxo-biodegradabili e convenzionali dopo 3 anni non solo erano integre, ma ancora in grado di essere usate per trasportare un carico; anche il sacchetto biodegradabile e compostabile, pur con qualche segno di deterioramento e incapace di trasportare un carico, è risultato presente nel sottosuolo dopo 27 mesi, mentre in ambiente marino si è disintegrato dopo 3 mesi.

«Questa ricerca – spiega Thompson – solleva una serie di domande su ciò che il pubblico potrebbe aspettarsi quando vede qualcosa etichettato come biodegradabile. Abbiamo dimostrato che i materiali testati non presentavano alcun vantaggio consistente, affidabile e rilevante contro i rifiuti marini. Mi interessa che questi nuovi materiali presentino anche sfide nel loro riciclaggio. Il nostro studio sottolinea la necessità di standard relativi ai materiali degradabili, delineando chiaramente il percorso di smaltimento appropriato e i tassi di degradazione che possono essere previsti».

È bene però precisare che non si tratta di una novità: come Assobioplastiche – l’Associazione italiana delle bioplastiche e dei materiali biodegradabili e compostabili – asserisce sin dalla sua nascita è «scorretto utilizzare il termine “biodegradabile” rispetto a prodotti a base di polimeri tradizionali o con l’aggiunta di additivi che ne accelerano la frammentazione (i cosiddetti oxo-degradabili). Gli unici prodotti a potersi fregiare correttamente di tale definizione sono quelli in bioplastica compostabile, come peraltro già chiarito nel 2015 in Italia dall’Agcm (direzione Tutela del consumatore) nel caso dei sacchetti oxo-degradabili, all’epoca utilizzati da alcune insegne della Gdo». Ed è vero che lo studio dell’Università di Plymouth ci dice che «solo il sacchetto biodegradabile e compostabile anche se erroneamente disperso nell’ambiente per effetto di cattive abitudini (littering), va incontro a totale decomposizione in ambiente marino in soli tre mesi e presenta un impatto ambientale ridotto».

Il fatto è che la biodegradabilità «non deve essere mai vista come una più comoda soluzione o una scusa per la disseminazione incontrollata nell’ambiente (che porterebbe al paradosso di legittimare ad esempio il littering degli scarti e residui organici in mare, in quanto biodegradabili)». Si tratta di un rischio cui il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep) ha messo in guardia sin dal 2015; e che è stato affrontato con chiarezza nel 2017 da un gigante industriale del settore, l’italiana Novamont; la soluzione «non è la biodegradazione in quanto tale (che comunque i sacchetti in bioplastica compostabile possiedono a differenza degli altri), quanto la ricerca e l’applicazione di modelli di corretta gestione dei rifiuti organici», sottolinea oggi Assobioplastiche. Ricordando che anche gli imballaggi in materiali biodegradabili e compostabili «sono progettati per essere gestiti nel circuito della raccolta dell’umido in appositi impianti industriali». Cercare di affibbiare loro l’etichetta di panacea contro il problema dei rifiuti, marini in particolare, fa male alla credibilità del settore quanto alla salubrità dell’ambiente: è qui che si gioca il ruolo di una buona comunicazione in materia.

L. A. 

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