Il nuovo rapporto di Greenpeace

Le rotte globali della nostra spazzatura: ecco che fine fanno i rifiuti in plastica italiani

Sul territorio non ci sono abbastanza impianti per gestire la spazzatura che produciamo, che così prende la via dell’estero: 197mila tonnellate che viaggiano dall’Austria al sud-est asiatico

[23 Aprile 2019]

Sono circa 197mila le tonnellate di rifiuti in plastica che l’Italia ha esportato all’estero lo scorso anno, perché le produce ma non le sa gestire: dove vanno a finire? Il rapporto Le rotte globali, e italiane, dei rifiuti in plastica diffuso oggi da Greenpeace cerca di ripercorrere le rotte della nostra spazzatura, che terminano a volte poco oltre i nostri confini e in altre si spingono fino al sud-est asiatico, ma in tutti i casi testimoniano quanto ancora sia difficile fare i conti con l’altra faccia dei nostri consumi.

Uno scenario ormai di portata globale, che è cambiato bruscamente dopo la decisione da parte della Cina – arrivata nell’estate del 2017 – di vietare le importazioni 24 tipologie di rifiuti da diversi paesi che per anni se ne sono approfittati, mandando laggiù (legalmente) materiali di pessima qualità di cui non volevano occuparsi direttamente. Un divieto che ha influenzato profondamente il commercio internazionale di rifiuti: «Le esportazioni di rifiuti di plastica provenienti dai 21 principali Paesi esportatori sono diminuite costantemente dalla metà del 2016 alla fine 2018, passando da 1,1 milioni a 500 mila tonnellate al mese», ovvero circa la metà.

Oggi però quegli stessi stati – compreso il nostro – si trovano a gestire un’eccedenza di rifiuti plastici che fanno fatica a collocare sul mercato: «Sono all’ordine del giorno le notizie che riportano sia interruzioni che problematiche nei sistemi locali di raccolta, riciclo e gestione dei rifiuti, che l’invio di materiali riciclabili in discariche, inceneritori ed esportazione illegale. In Italia, parallelamente a queste problematiche, è opportuno evidenziare il crescente fenomeno dei roghi di depositi di rifiuti, principalmente in plastica, molto spesso riconducibile all’eccedenza di tali materiali», si legge nel rapporto Greenpeace.

Chiusa la valvola di sfogo cinese, adesso le nuove rotte globali legate al commercio di materie plastiche riconducibili al codice doganale 3915 (scarti di lavorazione, cascami, rifiuti industriali e avanzi di materie plastiche) portano ad altri Paesi, principalmente del Sud-est asiatico – prima Malesia, Vietnam, Thailandia, poi Indonesia ma anche Turchia – dotati di regolamentazioni ambientali meno rigorose di quella europea, nonostante il Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio del 14 giugno 2006, n.1013 stabilisca che i rifiuti che escono dall’Europa possono però essere esportati solo in Paesi in cui saranno trattati secondo norme equivalenti a quelle europee in merito al rispetto dell’ambiente e della salute umana.

Per quanto riguarda l’Italia, come detto nel 2018 sono 197mila le tonnellate di rifiuti in plastica esportate – da confrontarsi però con le circa 2 milioni di tonnellate di rifiuti plastici raccolte attraverso la raccolta differenziata, dati 2017 –, il che pone il nostro Paese all’11esimo posto tra i principali esportatori di rifiuti plastici al mondo (con un contributo pari al 2,25% di tutti i rifiuti in plastica esportati): nel nostro caso il primo Paese di destinazione è l’Austria (39mila tonnellate), seguita da Germania e Spagna, mentre per quanto riguarda le destinazioni extraeuropee esportiamo soprattutto in Malesia, Cina e Vietnam.

Rispettare i principi di sostenibilità e prossimità impone però di ripensare completamente questo modello. Come fare? Aumentare la percentuale di raccolta differenziata è importante, ma senza gli impianti industriali che servono per gestire i rifiuti raccolti il problema non si risolve: «Il diktat cinese ha messo in evidenza un aspetto importante della situazione Italiana – spiega a Claudia Salvestrini, direttrice di Polieco, il Consorzio nazionale per il riciclaggio dei rifiuti dei beni a base di polietilene – ovvero che l’Italia è carente di impianti di recupero e riciclo». E non solo quelli: come documenta l’ultimo report di Assoambiente mancano all’appello impianti per il recupero di materia come per quello di energia, fino ad arrivare a quelli necessari per lo smaltimento finale.

Ma Giuseppe Ungherese, responsabile campagna Inquinamento di Greenpeace Italia, è più tranchant: «Riciclare non è la soluzione, sono necessari interventi che riducano subito la produzione, soprattutto per quella frazione di plastica spesso inutile e superflua rappresentata dall’usa e getta che oggi costituisce il 40% della produzione globale di plastica». Le due linee d’azione non sono però in contraddizione l’una con l’altra, ma anzi si completano come mostra la direttiva contro alcuni prodotti in plastica monouso approvata dall’Ue, che al contempo obbliga ad incrementare l’uso di plastica riciclata: una linea d’azione pragmatica che per funzionare deve poter contare sui giusti incentivi economici. Non a caso le imprese di filiera italiane nelle scorse settimane hanno proposto alle istituzioni italiane di introdurre un credito d’imposta per le imprese che utilizzano almeno il 30% di plastica riciclata nei propri prodotti, con premialità crescente in base al livello di difficoltà. Su questo fronte però lo stallo è totale, così come l’ostilità a realizzare sul territorio tutti gli impianti industriali necessari per gestire i rifiuti che produciamo. Che dunque prendono la via dell’export, o bruciano in discariche illegali.