L’economia circolare che non c’è ancora, spiegata dall’Arpat

La "visione bucolica" non regge più: «In sostanza parlare di economia circolare significa in primo luogo parlare di una maggiore industrializzazione, una maggiore presenza di impianti di gestione rifiuti nei nostri territori»

[21 Giugno 2019]

L’economia circolare piace, parlarne va di moda, ma quando si tratta di passare dalla teoria alla pratica è straniante notare che in Italia gli impianti necessari a gestire in sicurezza e/o valorizzare i rifiuti prodotti dagli italiani sono sempre più spesso oggetto di contestazioni: li riguarda il 35,9% dei casi Nimby (o Nimto, perché in testa alla proteste trovare politici e amministratori è una costante) registrati due anni fa, dove si fermano i dati più aggiornati disponibili. Dati dietro al quale un contesto di generalizzata sfiducia verso imprese e istituzioni si incrocia a quello di una comunicazione ambientale evidentemente assai carente: sempre due anni fa, un sondaggio Lorien Consulting elaborato per l’Ecoforum di Legambiente mostrava come il 63% dei cittadini intervistati pensi che il rifiuto differenziato non vada trattato attraverso processi industriali per riciclarlo e produrre nuovi manufatti. È il paradosso dell’economia circolare impossibile, quella senza impianti, che blocca lo sviluppo sostenibile del Paese e che è stato affrontato di petto durante il convegno fiorentino L’economia circolare che non c’è. Ancora, passato oggi in rassegna dall’Agenzia regionale per la protezione ambientale della Toscana (Arpat).

«Gli interventi che si sono susseguiti, sono stati tutti molto concreti e soprattutto – osserva l’Arpat – tesi a spazzare via una “visione bucolica” dell’economia circolare, riportando l’attenzione sulla vera natura della questione: l’ economia circolare è una politica industriale, che non riguarda tanto e solo il perimetro delle politiche ambientali ma quelle industriali ed economiche». Detta fuori dai denti: «In sostanza parlare di economia circolare significa in primo luogo parlare di una maggiore industrializzazione, una maggiore presenza di impianti di gestione rifiuti nei nostri territori».

Un punto che è stato sottolineato con forza da Andrea Sbandati, direttore di Cispel Toscana, precisando che «l’economia circolare spesso è vista come una sorta di bacchetta magica che fa sparire i rifiuti. In realtà, economia circolare significa più imprese e più mercato, con i pro e i contro dei flussi legati ai mercati ed i rischi industriali connessi alle attività imprenditoriali». Sta di fatto che l’economia circolare ancora non è pensata né comunicata come un comparto industriale, provocando di fatto uno tallo del comparto; per superarlo in un’ottica di sviluppo armonico del territorio l’ad di Unieco Ambiente – Stefano Carnevali – ha posto l’accento su tre punti fondamentali: «Un quadro giuridico certo, con ridotte, se non nulle, possibilità di interpretazione; una Pa che si ponga al fianco delle imprese e non in antagonismo con queste; attività produttive con dimensione industriale, superando la logica del “piccolo è bello”».

Questo nuovo modo di concepire l’economia, non più lineare ma circolare, è una sfida industriale che come riporta l’Arpat deve essere infatti sostenuta anche dalle istituzioni pubbliche, non solo a livello nazionale ma anche regionale e locale, con un impegno forte e chiaro in questa direzione. La bussola da seguire è quella del pacchetto normativo europeo approvato lo scorso anno, che impone al nostro Paese – e alla Toscana – un maggior riciclo, un maggior recupero energetico dei rifiuti non riciclabili, e un minor ricorso alla discarica. Un orizzonte al quale devono concorrere, è evidente, non solo le aziende che si occupano di gestire lo scarto di consumi e attività produttive, ma in primis quelle che producono i beni che consumiamo: al proposito Luana Frassinetti, ad di Csai, evidenzia come sia possibile ridurre il ricorso alla discarica solo se in primis produrremo «materiali eco-sostenibili, ovvero prodotti il cui ciclo di vita sia stato studiato e valutato attentamente, determinandone preventivamente la destinazione del fine vita»; con pragmatismo occorre comunque osservare che «aumentando la raccolta differenziata aumentano gli scarti, che, per lo più, almeno sinora, sono destinati alla discarica, e probabilmente lo saranno anche nel futuro, con buona pace per la politica del rifiuto zero». La stessa gestione dei rifiuti – come ogni processo industriale – produce scarti, nell’ordine di 2,5 milioni di tonnellate l’anno, che devono dunque essere gestite secondo logica di sostenibilità e prossimità.

Certo, nei passaggi intermedi si può e deve migliorare la performance per ridurre al minimo gli scarti:  Alessia Schiappini, ad di Alia, ritiene ad esempio «che per affermare l’economia circolare, in primo luogo, serva una buona raccolta differenziata; questo comporta un patto con l’utenza e l’introduzione della tracciabilità del rifiuto, tracciare l’utenza per avere rifiuti di qualità. Al contrario sarà difficile potere garantire quelle caratteristiche di qualità, richieste dalle imprese e condicio sine qua non per avviare al riciclo i nostri rifiuti, se questo non avverrà, purtroppo, avremo solo una quantità maggiore di scarti». E una volta riciclati? Serve chiudere il cerchio: l’economia circolare funziona laddove esiste un mercato consolidato che accoglie i materiali per re-inserirli in processi produttivi.

Perché tutti gli ingranaggi di questo complesso meccanismo funzionino portando i risultati sperati è necessaria collaborazione tra gli attori in campo, e un contesto normativo e politico coerente. «Federica Fratoni, assessore all’Ambiente della Regione Toscana, riconosce – riporta l’Arpat – che la Toscana si deve dotare di un maggiore numero di impianti per la gestione di rifiuti, che ancora oggi lo smaltimento in discarica è alto (oggi al 38% per i rifiuti urbani, ndr) mentre la raccolta differenziata non raggiunge percentuali tra le più alte nel panorama nazionale (56%, ndr)».

Tutti d’accordo dunque? Rimane “solo” da decidere quali impianti, dove localizzarli e con quali tempistiche. Definire il quadro di riferimento spetta alla Regione Toscana, dalla quale è atteso da tempo il varo di un nuovo e ambizioso Piano regionale rifiuti e bonifiche (Prb), mentre le imprese toscane hanno chiarito ieri di essere pronte a fare la propria parte: Cispel ha presentato a Firenze una proposta industriale da 1 miliardo di euro in dieci anni, un’occasione preziosa per il concreto sviluppo sostenibile del territorio. Se sapremo coglierla.