Il Paese continua a percorrere un modello di “sviluppo” la cui fine è ormai segnata

Legge di Stabilità, Istat: l’Italia nel 2016 crescerà meno rispetto alla media dell’area euro

Investimenti in conoscenza praticamente fermi, alla produttività continua a mancare l’apporto del capitale

[18 Maggio 2016]

Quanto vale per l’economia italiana l’ultima legge di Stabilità a marchio Renzi, sulla quale la Commissione europea si è appena espressa garantendo il proprio via libera? In occasione della prima manovra elaborata dall’attuale governo, a fine 2014, il giudizio offerto dall’Istat fu lapidario. «Effetto cumulativo netto nullo» sul Pil, tradotto zero crescita attribuibile agli indirizzi di governo. Da allora, valutazioni così puntuali non sono più arrivate, ma l’analisi diffusa ieri dall’Istituto nazionale di statistica sulle prospettive per l’economia italiana nel 2016 offre comunque chiare indicazioni.

Per il 2016 l’Istat prevede un aumento del Pil italiano pari all’1,1% in termini reali, un tasso di crescita superiore a quello registrato nel corso del 2015 (+0,8%) ma che ha comunque già perso 0,3 punti percentuali rispetto a quanto ipotizzato dallo stesso Istat 6 mesi fa. I posti di lavoro aumenteranno in modo meno che proporzionale (+0,8% in termini di unità di lavoro, a fronte del +1,1% atteso per il Pil), ma si stima comunque un consolidamento nella crescita dei consumi nazionali: dopo il +0,9% guadagnato nel 2015, per l’anno in corso la spesa delle famiglie in termini reali è stimata in aumento dell’1,4%.

Un quadro certo non roseo, ma in miglioramento. Quanta di questa spinta possa essere attribuita alle manovre di governo non è dato sapere in termini esatti, ma è un dato di fatto il confronto con gli altri paesi europei: «Per il 2016 la previsione dell’Istat per l’economia italiana indica un aumento del Pil pari all’1,1% che si tradurrebbe – precisa l’Istat – in un differenziale di crescita negativo pari a 0,5 punti percentuali rispetto alla media dei paesi dell’area euro». Anche se in diminuzione, il gap con i nostri cugini europei rimane sensibile. Così stando le cose, la performance dell’economia italiana si manterrebbe quindi su livelli inferiori a quelli della media dei paesi dell’area euro, che come il nostro Paese godono di elementi congiunturali favorevoli – tra i quali spiccano i bassi prezzi del petrolio, tassi d’interesse ai minimi e il rafforzamento del quantitative easing –, riuscendo evidentemente a trarne maggior profitto rispetto all’Italia.

Molti dei principali elementi di freno nello sviluppo del Paese sono i soliti da lustri, e vengono ribaditi dall’Istat. L’Italia ha registrato «una dinamica degli investimenti in Pri (Prodotti della proprietà intellettuale, che comprendono la Ricerca&Sviluppo, ndr) nettamente più lenta rispetto agli altri paesi nel periodo successivo al 2007». Ponendo a 100 il valore degli investimenti in Pri a prezzi concatenati del 2007 – spiega l’Istat – nel 2015 il livello dell’Italia risultava pari appena a 102, mentre per i principali paesi europei era a 120.

Un importante elemento di riflessione che va ad aggiungersi all’interno di «una delle caratteristiche strutturali dell’economia italiana», ovvero la mancata crescita della produttività del lavoro che – a dispetto del nome – continua ad essere imputabile più ai mancati o inefficienti impieghi del capitale piuttosto che attribuibile a ai lavoratori. «La caduta degli investimenti – spiega infatti l’Istat – ha determinato un significativo peggioramento del contributo del capitale alla crescita. Scomponendo la dinamica della produttività del lavoro italiana nei contributi del capitale per ora lavorata e della produttività totale dei fattori si osserva come nel 2015, per il secondo anno consecutivo, risulti negativo il contributo del capitale per ora lavorata».

È il riflesso di un modello di sviluppo che si è irrimediabilmente inceppato, e che richiede profonde sterzate del tutto assenti in seno alla legge di Stabilità. Un’economia della conoscenza, basata sulla circolarità dei sistemi di produzione e consumo, è ancora al di là da venire. Nonostante l’insistenza delle dichiarazioni di facciata, l’Italia sembra curarsi molto poco di queste possibilità, e anzi continuare a seguire gli ultimi scampoli di un modello di crescita votato all’estinzione: non appena il Pil è tornato timidamente a crescere, nel Paese sono aumentate ancor di più le emissioni di gas serra e la produzione di rifiuti. Eppure secondo i più recenti studi potrebbe garantire all’Italia almeno 541mila nuovi posti di lavoro, forti risparmi per le imprese (le materie prime incidono infatti fino al 60% del prezzo finale dei prodotti venduti) e importanti guadagni sotto il profilo ambientale. Una strada obbligata che diventerà però sempre più cara da percorrere, se continuiamo a perdere tempo.