Ocse: l’Italia è ottava per livelli di emigrazione, ad andarsene soprattutto i giovani

L’Istat fotografa l’Italia delle culle vuote: in dieci anni perso un quarto delle nascite

«Il dispiegarsi degli effetti sociali della crisi economica ha agito direttamente sulla cadenza delle nascite»

[25 Novembre 2019]

Dall’inizio della crisi economica la già debole natalità italiana ha iniziato a crollare verticalmente: nell’arco degli ultimi dieci anni – testimonia l’Istat nel suo ultimo report – le nascite sono diminuite di 136.912 unità, quasi un quarto (il 24% in meno) rispetto al 2008.

Si tratta di un fenomeno «in parte dovuto agli effetti “strutturali” indotti dalle significative modificazioni della popolazione femminile in età feconda», in quanto le donne italiane sono sempre meno numerose: rispetto al 2008 quelle tra i 15 e i 49 anni sono oltre un milione in meno, e un minore numero di donne in età feconda comporta naturalmente, in assenza di variazioni della fecondità, meno nascite. In larga parte però le cause di questo declino stanno nell’impoverimento e nella crescita delle disuguaglianze che hanno caratterizzato l’ultimo decennio, con l’Istat a sottolineare che «il dispiegarsi degli effetti sociali della crisi economica ha agito direttamente sulla cadenza delle nascite».

Se l’età media alla nascita del primo figlio si attesta oggi a 31,2 anni nel 2018 (tre anni in più rispetto al 1995), e la fase di calo della natalità avviatasi con la crisi si ripercuote soprattutto sui primi figli – diminuiti del 28% circa tra il 2008 – tra le cause spicca «la prolungata permanenza dei giovani nella famiglia di origine, a sua volta dovuta a molteplici fattori: il protrarsi dei tempi della formazione, le difficoltà che incontrano i giovani nell’ingresso nel mondo del lavoro e la diffusa instabilità del lavoro stesso, le difficoltà di accesso al mercato delle abitazioni, una tendenza di lungo periodo ad una bassa crescita economica, oltre ad altri possibili fattori di natura culturale. L’effetto di questi fattori è stato amplificato negli ultimi anni da una forte instabilità economica e da una perdurante incertezza sulle prospettive economiche del Paese, che ha spinto sempre più giovani a ritardare le tappe della transizione verso la vita adulta rispetto alle generazioni precedenti».

Non solo: molti giovani, di fronte a un Paese non più in grado di offrire adeguate prospettive di vita, si trovano costretti ad espatriare indebolendo ulteriormente la struttura demografica italiana. Mentre l’opinione pubblica e la politica si concentravano in un’esistente emergenza immigrazione, le vere criticità – legate al contrario all’emigrazione – sono esplose: nel 2018 gli emigrati italiani sono stati 285 mila, tanto che secondo l’Ocse – come ricorda l’economista ambientale Carlo Carraro – l’Italia «è ottava, dopo Cina, Siria, Romania, Polonia, India, Messico e Vietnam, per livelli di emigrazione». E ad andarsene «sono soprattutto giovani tra i 18 e i 44 anni (il 56% del totale), dei quali il 32% è in possesso di una licenza di scuola elementare o media, il 36,3% di un diploma e il 30,6% di una laurea […] L’emigrazione di giovani italiani del 2018 è seconda solo a quella del primo dopoguerra. Ma mentre quella era soprattutto l’emigrazione di persone poco istruite che sfuggivano alla fame creata dal periodo bellico, ora si tratta soprattutto di persone istruite e provenienti dalla classe media, che cercano nuove opportunità e un ambiente economico più dinamico che offra salari migliori».

Gestire anziché respingere (inutilmente) i flussi migratori, e garantire opportunità di sviluppo per la risorsa più scarsa e preziosa oggi disponibile in Italia – ovvero i giovani – rappresenta non solo un atto di giustizia sociale, ma l’unico modo che ha il Paese per provare a provare un percorso di sviluppo sostenibile che non si trovi presto schiacciato sotto il peso di una struttura demografica distorta.