Qual è il reale impatto sulla salute degli inceneritori? Lo studio dell’Imperial College London

«Anche se non è possibile escludere del tutto impatti sulla salute pubblica, è probabile che gli inceneritori moderni e ben regolati abbiano un impatto molto piccolo, se non addirittura impercettibile, sulle persone che vivono nelle vicinanze»

[21 Giugno 2019]

Se gli impianti di trattamento e/o valorizzazione dei rifiuti sono sempre più visti in Italia come il problema e non la soluzione alla gestione degli scarti che produciamo – li riguarda il 35,9% dei casi Nimby o Nimto registrati nel Paese –, c’è una categoria che spicca sulle altre: gli inceneritori, anche se con recupero energetico (termovalorizzatori). Percepiti come una fonte emissiva altamente inquinante e come contrari ai principi dell’economia circolare – nonostante la Corte Ue abbia recentemente ricordato la loro legittima presenza nella gerarchia per la gestione dei rifiuti –, sono tra gli obiettivi prediletti del pubblico ludibrio e dell’insipienza politica.

Come risultato, in Italia la quota di rifiuti avviati a termovalorizzazione è pari a 5,3 milioni di ton per i rifiuti urbani nel 2017 (pari al 18% rispetto al totale rifiuti urbani gestiti) un dato di oltre 10 punti percentuali in meno rispetto a quello medio registrato a livello europeo (pari al 28,5% considerando solo i rifiuti urbani). In compenso le nostre discariche traboccano: entro 2 anni anche quelle saranno finite, se non troviamo alternative. Il gioco vale la candela e, soprattutto, gli allarmi sulla salute legati all’impiego degli inceneritori sono effettivamente fondati? Perché i rifiuti vengono comunque prodotti, e in qualche modo – e con qualche impatto – devono essere gestiti.

Nel Regno Unito – dove si termovalorizza circa il doppio dei nostri rifiuti urbani – per rispondere con cognizione di causa l’Imperial College London ha condotto un’importante ricerca, finanziata dalla Public Health England e dal Governo scozzese, con il supporto del Medical Research Council e del National Institute for Health Research; sono stati presi in esame 22 inceneritori presenti nel Paese, lungo un arco di tempo di 7 anni. Il risultato è «l’analisi più ampia e completa condotta fino ad oggi sugli effetti degli inceneritori di rifiuti urbani sulla sanità pubblica nel Regno Unito».

Le concentrazioni di PM10 sono state usate come proxy per studiare gli effetti dell’esposizione alle emissioni degli inceneritori, con particolare attenzione agli effetti su un segmento sensibile, quello delle gravidanze e dei neonati. Sintetizzando molto, i ricercatori «non hanno trovato alcun legame tra l’esposizione alle emissioni degli inceneritori di rifiuti urbani e le morti infantili o la ridotta crescita fetale. Tuttavia, mostrano che vivere vicino agli inceneritori è associato a un aumento molto piccolo del rischio di alcuni difetti alla nascita, rispetto alla popolazione generale, ma non è chiaro se questo sia direttamente correlato all’inceneritore o meno». Si tratta di circa 0,6 casi ogni 1.000 nascite per difetti cardiaci congeniti, e di 0,6 casi per 1.000 nati maschi per ipospadia (una malformazione agli organi genitali) rilevati entro 10 km da un inceneritore. «Questo aumento – precisa la prof. Mireille Toledano – potrebbe non essere correlato direttamente alle emissioni degli inceneritori. È importante considerare altri fattori potenziali, come l’aumento dell’inquinamento causato dal traffico industriale nelle aree intorno agli inceneritori, o la specifica composizione della popolazione che vive in quelle aree», che potrebbe avere uno status socio-economico penalizzante.

In definitiva, prendendo in esame questo e altre due recenti ricerche, la prof. Anna Hansell – direttrice del Centre for Environmental Health and Sustainability all’University of Leicester, che ha guidato l’avvio dello studio condotto all’Imperial College London – osserva che «questo ampio corpus di lavori rafforza l’attuale parere del Public Health England: anche se non è possibile escludere del tutto impatti sulla salute pubblica, è probabile che gli inceneritori moderni e ben regolati abbiano un impatto molto piccolo, se non addirittura impercettibile, sulle persone che vivono nelle vicinanze».

Posto che il “rischio zero” o un “impatto “zero” non esistono nell’ambito di ogni attività umana, quello offerto dall’Imperial College London è un approccio laico e scientifico al tema, che sarebbe utile incrociare con i più recenti dati disponibili su suolo italiano per migliorare la gestione dei rifiuti anche alle nostre latitudini. Dal Cnr ad esempio, studiando gli impatti del termovalorizzatore di Pisa, affermano che «i fattori di rischio sono tanti. Sicuramente rischia di più chi fuma due pacchetti ed è lontano dall’inceneritore da chi non fuma ed è vicino all’inceneritore»; in questo caso è bene sottolineare che sono stati comunque evidenziati impatti di rilievo sotto il profilo sanitario legati al termovalorizzatore, che poi è stato avviato a chiusura, ma si parla di un impianto nato 40 anni fa. Le emissioni legate a un impianto recentemente ammodernato come il termovalorizzatore di Brescia – il più grande d’Italia – mostrano invece un calo del 77% secondo i dati rilevati da Arpa Lombardia, con un impatto complessivo «molto basso» come riportano dal Corriere della Sera: «È responsabile dello 0,1% di tutto il PM10 (il record spetta al riscaldamento con il 48%) del 2,9% di tutto il biossido di zolfo, del 2,3% degli ossidi d’azoto (il record spetta al traffico, con il 52%). In quanto alle diossine può valere il dato regionale: gli 11 impianti di incenerimento lombardi pesano solo l’1,62%».