Quali correlazioni tra inquinamento atmosferico e Covid-19? Il punto da Harvard e Bari

Dal gruppo pisano di Ecologia politica un seminario con i docenti delle due Università, tra i protagonisti della ricerca su questo importante interrogativo

[20 Aprile 2020]

Sono sempre più numerosi gli studi scientifici che si propongono di esaminare sotto molteplici aspetti i legami tra la qualità dell’aria che respiriamo e la pandemia in corso. Può l’esposizione all’inquinamento atmosferico, sia cronica sia acuta, avere un effetto sulla probabilità di contagio, la comparsa dei sintomi e il decorso della malattia del coronavirus causata dalla Sars-Cov-2? Si tratta di una domanda cui urgente rispondere, e molti ricercatori si stanno adoperando sul tema.

È il caso di Francesca Dominici e Gianluigi De Gennaro, rispettivamente docenti alle Università di Harvard e di Bari, che sono stati protagonisti del seminario online “Inquinamento dell’aria e Covid-19” (disponibile qui e in coda all’articolo) organizzato dal gruppo indipendente di studenti e ricercatori universitari Ecologia politica di Pisa.

Gianluigi De Gennaro è co-autore di un position paper curato da Società italiana di medicina ambientale (Sima) con ricercatori delle Università di Bari e di Bologna, che per primo in Italia ha sollevato il problema delle correlazioni tra inquinamento atmosferico e Covid-19, ipotizzando per il particolato atmosferico sia un ruolo di carrier sia di boost dell’epidemia. I dati della ricerca, come riassumono da Ecologia politica, evidenziano «una correlazione tra province con superamenti dei limiti di legge per il PM10/PM2.5 e contagio del Covid-19. Pertanto al particolato atmosferico PM10/PM2.5 è attribuito il ruolo di vettore della diffusione del virus Covid-19. Punto di partenza dei ricercatori, la rapida e anomala diffusione del virus osservata in determinati territori, prima tra tutte la Lombardia con il più alto numero di contagi, seguita da Emilia Romagna, Veneto e Piemonte. L’evoluzione dei contagi ha interessato in maniera particolare la Pianura Padana in un contesto peculiare caratterizzato dal superamento delle soglie Pm10, stabilità atmosferica molto accentuata, con uno scarso “ricambio di aria” e livelli di umidità molto alti. Tale combinazione potrebbe essere drammaticamente determinante per i record di contagio e mortalità che registra la Pianura Padana: il cuore produttivo del nostro paese, oltre che la zona vasta con l’aria più inquinata di tutta Europa».

Francesca Dominici invece ha guidato un gruppo di ricercatori di Harvard che, studiando dati raccolti in circa 3mila contee Usa ha scoperto che «l’aumento di solo 1 μg/m3 di PM2.5 è associato ad un aumento del 15% nel tasso di mortalità da Covid-19». Inoltre lo studio «rivela che – aggiungono dal gruppo pisano di Ecologia politica – la percentuale di popolazione afroamericana e il numero di letti d’ospedale interagiscono fortemente con il tasso di mortalità in una contea. Ciò, secondo Dominici, aggrava le disuguaglianze in un Paese che non dispone di un sistema di sanità pubblico».

Entrambi gli studi non sono stati (ancora) sottoposti a peer-review ma stanno già alimentando un intenso dibattito nella comunità scientifica. L’ultimo contributo in tal senso arriva da un gruppo di 17 ricercatori, che hanno pubblicato un documento ospitato nel repository della rivista Epidemiologia & Prevenzione e sulle pagine del Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente.

«Il position paper della Società italiana di medicina ambientale e lo studio americano condotto dagli epidemiologi di Harvard – riporta il documento – hanno sollevato perplessità dal punto di vista della metodologia adottata e inviti alla cautela su queste possibili relazioni [tra inquinamento atmosferico e Covid-19, ndr]». Tra queste spicca il fatto che il PM potrebbe svolgere «più un ruolo di booster nei confronti di infezioni respiratorie che di carrier», ma più in generale «le posizioni non conclusive e non sempre condivise circa la possibile associazione tra inquinamento atmosferico e Sars-Cov-2 depongono per un atteggiamento di massima cautela nell’interpretazione dei dati e delle conoscenze disponibili, e fanno sì che tale associazione rimanga al momento un’ipotesi che necessita di essere verificata da ulteriori ricerche, accurate e approfondite». Una necessità sulla quale peraltro sia Dominici sia De Gennaro concordano: ad oggi la comunità scientifica non ha ancora sviluppato un solido consenso sul tema, ma le evidenze finora raccolte dai ricercatori attivi su questo fronte non sono rassicuranti e questo impone la necessità di approfondire gli sforzi di ricerca fatti finora.

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