Riceviamo e pubblichiamo

Una riforma fiscale ecologica per sfuggire al diktat dell’Iva: sì, ma come?

Bisogna premiare l’efficienza e l’innovazione, riducendo ulteriormente il carico fiscale a chi va in questa direzione

[20 Agosto 2019]

Tempo di legge di Stabilità e, quindi, la riflessione sui temi fiscali è attuale: tutti partono da lì e cioè dal tema dell’Iva e delle clausole di salvaguardia. Ora, a parte riflessioni più ampie su come le risorse pubbliche sono state investite in questi ultimi anni, mi voglio riferire esclusivamente al tema di una riforma fiscale ecologica che riorganizzi le entrate dello Stato italiano a gettito invariato, introducendo tasse ambientali e riducendo i sussidi impropri, abbassando le tasse sul costo del lavoro e aumentando gli investimenti pubblici nella green economy. Chi può dirsi contrario? Nessuno.

Eppure, ci sono buone ragioni per non arruolarsi tra i favorevoli senza procedere a molti approfondimenti.

Innanzitutto in Italia la pressione fiscale è già alta. Su questo non credo di dover aggiungere altro, se non che un’alta pressione fiscale ha avuto anche l’effetto di ridurre gli investimenti, compresi quelli in ricerca e innovazione. Quindi far riferimento al gettito invariato porta con sé quella difficoltà di fondo che si ripercuote sulla scarsa competitività del Paese.

Senza, poi, considerare le entrate parafiscali: ad esempio quelle delle bollette energetiche (che pagano le imprese e famiglie) che finanziano le fonti rinnovabili. Senza contare che un nucleo ristretto di imprese pagare già il diritto ad emettere CO2 secondo le regole comunitarie in vigore. Queste entrate parafiscali, pur non essendo inserite nel bilancio dello Stato, assolvono alla funzione di introdurre sull’energia degli oneri che spingono, nel caso migliore, verso l’efficienza e, in quello peggiore, tendono a rendere meno competitive una serie imprese.

Dopodiché bisogna capirsi sulle imprese. Non sono tutte uguali: ci sono quelle che sono energy intensive e quelle labour intensive e, molto spesso, sono organizzate per filiere orizzontali, in cui c’è chi produce il materiale (e quindi usa risorse) e chi lo trasforma in diversi manufatti, fase nella quale il lavoro ha un maggiore peso. L’uno presuppone l’altro, senza contare che il produttore del materiale è sovente (sempre?) anche il riciclatore e, quindi, il perno del sistema di economia circolare.

E quindi? Non si può dividere il mondo in due, tra chi usa le risorse e chi no, perché ognuno ha un ruolo nella filiera. Bisogna premiare l’efficienza e l’innovazione, riducendo ulteriormente il carico fiscale a chi va in questa direzione. Ambiente, innovazione e infrastrutture devono essere in cima all’agenda di un Piano di investimenti pubblici e privati a livello italiano ed europeo. Il piano Junker (chi se lo ricorda?) non basta: per ridurre drasticamente le emissioni ci vuole ben altro (un Industria 4.0 su ambiente e energia?).

Una volta individuati gli obiettivi, questi devono essere perseguiti con rigore e disciplina. Improponibile a Bruxelles?

di Massimo Medugno, direttore generale Assocarta