Le piattaforme offshore dismesse potrebbero avere un sorprendente ruolo ecologico

Molte piattaforme in disuso sia con il business-as-usual che con la decarbonizzazione

[17 Gennaio 2019]

Attualmente nel mondo sono in funzione quasi 8.000 impianti petroliferi offshore che rappresentano enormi infrastrutture con una durata di vita limitata. Nei prossimi 5 anni smetteranno di funzionare più di 600 impianti di trivellazione offshore ed entro il 2040 altri 2.000 saranno obsoleti. Il destino di questi impianti è fonte di polemiche anche in Italia.

Ora lo studio “Decommissioning of offshore oil and gas structures — Environmental opportunities and challenges”, pubblicato su Science of the Total Environment da un team di ricercatori australiani e dell’ExxonMobil Upstream Research Company evidenzia che il decommissioning delle infrastrutture offshore di petrolio e gas comporta sfide ambientali, ma anche opportunità.

Il team guidato da Brigitte Sommer dell’University of Technology Sydney e dell’università di Sydney evidenzia che «Dopo decenni in mare, le strutture petrolifere e del gas sostengono la vita marina» e fa notare che molti impianti offshore attirano sorprendenti concentrazioni di pesci e forniscono un sito dove si ancorano  cozze, cirripedi e altri invertebrati. Nel Mare del Nord, le creature marine attaccate alle piattaforme di trivellazione possono aumentare il peso di queste strutture fino al 30%.

Per dimettere un impianto di trivellazione offshore ci sono diverse opzioni: può essere smontato e portato via, può essere lasciato dove è come barriera corallina artificiale: o completamente intatto, può essere rimossa la parte superiore per ridurre i rischi per la navigazione, o la piattaforma può essere staccata dal fondo ed essere fatta affondare inclinata su un lato. Oppure può essere rimossa dal sito di trivellazione ed essere utilizzata per creare un reef artificiale altrove, oppure può essere lasciata sul posto per essere utilizzata in un altro modo.

Come scrive Sarah DeWeerdt  su Anthropocene, «Da una prospettiva umana, rimuovere le piattaforme di trivellazione fa sembrare le cose più incontaminate. Ma vista da sotto la superficie dell’acqua la cosa potrebbe essere diversa. Lasciare le strutture sul posto può effettivamente avere dei benefici e rimuoverle può causare danni». Quando le piattaforme per estrarre petrolio e gas vengono portate via, con loro se ne va anche il biota che le ha colonizzate e i ricercatori evidenziano che dal momento che le strutture possono fornire connettività in aree in cui le scogliere naturali sono scarse – agendo come “trampolini di lancio” per consentire alle specie di passare da un’area all’altra dell’habitat – la loro perdita può anche avere effetti su un più ampio ecosistema marino.

I ricercatori sottolineano che «Tutte le opzioni di decommissioning comportano qualche disturbo fisico al biota e agli habitat». Se la piattaforma viene lasciata dove è stata impiantata, basta scollegarla dal pozzo al pozzo, ma lo smantellamento parziale della struttura o la rimozione dal fondo marino può comportare l’uso di utensili da taglio o persino di esplosivi. Interventi che possono disperdere composti tossici ma, d’altronde, anche il lento degrado dei componenti delle strutture che vengono lasciate sul posto può comportare il rilascio di contaminanti.

Paradossalmente, le piattaforme petrolifere e di gas attive diventano di fatto una sorta di aree marine protette  (comunque sempre a rischio di sversamenti e incidenti) perché le norme di sicurezza escludono i pescherecci dall’area attorno alla piattaforma. Le strutture dismesse lasciate completamente o parzialmente sul posto possono mantenere alcuni di questi benefici perché impediscono la pesca a strascico. Secondo lo studio, rimuovere tutte le piattaforme petrolifere e di gas dal Mare del Nord libererebbe circa 400 Km2 alla pesca a strascico.

Nessun metodo di smantellamento è il migliore in tutte le situazioni. I ricercatori sostengono «un approccio ecosistemico alla disattivazione» che prenda in considerazione l’intero spettro di benefici ambientali e rischi legati alle diverse opzioni. Questo, in alcune regioni, come il Sud-est asiatico e l’Africa occidentale, richiederà più ricerche sul valore dell’habitat delle piattaforme offshore e anche di pensare al decommissioning in maniera più flessibile. In alcune regioni, come nel Mare del Nord, la rimozione completa delle piattaforme a fine vita è l’approccio predefinito, ma i ricercatori fanno notare che «Limitando le opzioni in anticipo, i pianificatori potrebbero non riuscire a identificare l’approccio migliore per l’ambiente».

Ad esempio, gli studi sul decommissioning hanno dimostrato che un grande impianto offshore come la piattaforma Murchison aveva attirato grandi concentrazioni di pesci ed si era formato un habitat per i coralli di acqua fredda e per altra vita marina. Ma i progettisti hanno deciso che, dal momento che quelle specie non ci sarebbero state se non fosse stato per l’impianto, non dovevano prendere in considerazione gli effetti della rimozione della piattaforma sulla comunità marina.

I ricercatori fanno notare che «C’è un crescente interesse per sviluppare utilizzi alternativi per le vecchie infrastrutture petrolifere e del gas»: le piattaforme dismesse potrebbero diventare hotel, siti per la pesca sportiva, punti di immersione, ospitare impianti eolici o per la produzione di energia con il moto ondoso, infrastrutture per la cattura e lo stoccaggio del carbonio, stazioni di ricerca o strutture per la maricoltura.

La DeWeerdt  evidenzia che «Lo sfondo implicito del documento è una sorta di ciclo business-as-usual di esplorazione, produzione e decommissioning offshore di petrolio e gas. Ma non ci vuole un grande salto logico  per rendersi conto che uno degli effetti collaterali di una profonda decarbonizzazione della società sarebbe una bella quantità di infrastrutture di combustibili fossili in disuso, sia a terra che offshore. Quali ruoli ecologici potrebbe svolgere le infrastrutture che vogliamo preservare? E a quali scopi creativi potremmo, un giorno, destinare la spazzatura che resterà dell’era dei combustibili fossili?»

I ricercatori concludono: «Abbiamo scoperto  che le funzioni e i servizi ecosistemici  aumentano con l’età della struttura e variano in base alla posizione geografica, in modo tale che le decisioni sul decommissioning debbano adottare un approccio ecosistemico che prenda in considerazione il loro habitat più ampio e i valori della biodiversità. L’allineamento delle priorità di valutazione del decommissioning tra le autorità di regolamentazione e il modo in cui vengono valutate ridurrà la probabilità di prendere decisioni sullo smantellamento variabili e non ottimali. In definitiva, la gamma di opzioni di decommissioning consentite deve essere ampliata per ottimizzare i risultati ambientali del decommissioning lungo tutta l’ampia gamma di ecosistemi in cui si trovano le piattaforme».