Mare senza trivelle, il manifesto di Coordinamento nazionale pesca e Greenpeace

Appello al governo: «Il gioco non vale la candela: rischio inutile per il mare e la pesca»

[22 Ottobre 2015]

Greenpeace e il Coordinamento Pesca dell’Alleanza delle Cooperative Italiane  hanno pubblicato insieme il manifesto “Mare senza Trivelle”  nel quale esprimono «assoluta contrarietà alla strategia di sfruttamento intensivo delle riserve di idrocarburi offshore promossa dal governo nazionale» e chiedono «una moratoria per tutte le attività estrattive nei nostri mari e una profonda revisione delle politiche energetiche nazionali, nel rispetto degli impegni presi dall’Italia per contrastare i cambiamenti climatici. Un altolà alle trivelle si giustifica anche nell’interesse reale del Paese, che può e deve puntare su altre fonti energetiche (rinnovabili ed efficienza) e preservare e valorizzare il mare come asset strategico per la sua economia».

Secondo il manifesto di pescatori e ambientalisti, «Mai, come nei mesi recenti, i mari italiani erano stati bersaglio di una così ampia e articolata manovra – legislativa, amministrativa e politica – per promuovere gli interessi delle compagnie petrolifere. Una serie impressionante di decreti autorizzativi, emanati dal Ministero dell’Ambiente e dal Ministero dello Sviluppo Economico, con l’avallo del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, ha spalancato l’Adriatico, lo Ionio e ampie aree del Canale di Sicilia alle prospezioni geosismiche con la tecnica dell’airgun; sono stati autorizzati nuovi pozzi di produzione e di ricerca, e tre nuove piattaforme petrolifere potrebbero essere installate nei prossimi mesi».

Greenpeace e Alleanza delle Cooperative Italiane ritengono che «il “piano” di petrolizzazione dei mari italiani, promosso inizialmente dal governo Monti, poi sostenuto anche dal governo Renzi, sia un nonsense dal punto di vista economico, energetico e ambientale, nonché un indirizzo negativo rispetto all’impegno, pur assunto dall’Italia, nel contrasto ai cambiamenti climatici. Ad oggi nel nostro Paese si estrae un quantitativo di gas in mare equivalente all’incirca al 7% dei consumi nazionali; per quanto riguarda il petrolio, le estrazioni in mare coprono l’1,3% dei consumi nazionali. Le riserve certe di petrolio sotto i nostri fondali – ciò che potremmo ancora estrarre con certezza – equivalgono a meno di due mesi dei consumi nazionali; quelle di gas a circa sei mesi. Riempire i nostri mari di piattaforme, dunque, non ridurrebbe la dipendenza energetica dell’Italia dall’estero». Coordinamento nazionale pesca e Greenpeace fanno anche notare che «Inoltre le attività di estrazione di idrocarburi offshore generano gettiti fiscali modesti, le compagnie si avvalgono di franchigie e royalties tra le più basse al mondo. Infine non si avrebbero neppure ricadute occupazionali significative, al più nell’ordine di poche migliaia di unità, quando il rapporto tra investimenti e occupazione generata, per le fonti rinnovabili e l’efficienza energetica, è incomparabilmente superiore».

Per Alessandro Giannì, direttore delle Campagne di Greenpeace Italia, si tratta di  «Un gioco che non vale assolutamente la candela, se pensiamo che nel solo bacino Adriatico la produzione ittica si attesta intorno ai 300 milioni di euro l’anno, offrendo lavoro a circa 10 mila persone, alle quali si aggiungono gli addetti del settore dell’acquacoltura e della mitilicoltura. La sola pesca in Adriatico ha un valore, escluso l’indotto, pari all’intero gettito delle royalties che le compagnie petrolifere hanno pagato nel 2015 in Italia, sia per le estrazioni onshore che offshore, di gas e petrolio».

La critica riguarda la stessa politica economica e ambientale del governo: «Mentre dunque non si fa nulla per attirare investimenti sui veri asset energetici che il Paese dovrebbe privilegiare – si legge nel manifesto –  non si tiene altresì conto dei danni che questo indirizzo provocherà ad altri settori economici, quali il turismo e la pesca. Gli impatti derivanti dalle attività offshore di prospezione, ricerca ed estrazione di idrocarburi sono dannosi per la salute e l’integrità degli ecosistemi marini. Le attività di prospezione sismica e le esplosioni provocate dall’uso dell’airgun possono provocare danni fisici diretti a un’ampia gamma di organismi marini – cetacei, tartarughe, pesci, molluschi e crostacei – e così facendo alterare la catena trofica. Studi scientifici dimostrano una pesante riduzione delle catture per numerose specie ittiche, con decrementi che possono oscillare tra il 20 e il 70%. Gli impianti offshore, inoltre, non sono strutture intrinsecamente sicure e non è possibile escludere disastri quali quello occorso pochi anni fa nel Golfo del Messico. In Italia, tuttavia, le Valutazioni di Impatto Ambientale cui vengono sottoposti progetti come questi sono del tutto inadeguate. A causa di una norma varata nel 2005, il “rischio rilevante” per le trivelle e le piattaforme (quello di un’esplosione, della rottura di un pozzo o di un oleodotto e più in generale di un “major spill”) è stato eliminato dalle procedure di valutazione: il massimo del rischio che viene preso in considerazione è lo sversamento accidentale di minime quantità di idrocarburi nelle fasi di lavorazione».

il Coordinamento Pesca dell’Alleanza delle Cooperative sottolinea che «Le politiche di gestione della pesca professionale sono sempre più indirizzate verso la sostenibilità dello sforzo di pesca. È inutile dar vita al fermo di pesca, ai piani di gestione per consentire un corretto prelievo delle risorse ittiche, se poi si autorizzano interventi in mare che rischiano di danneggiare pesantemente la fauna marina e con questa l’attività delle imprese della filiera. I pescatori sono sempre più chiamati a farsi carico in prima persona dei costi legati ad una riduzione dello sforzo di pesca, questo può essere, però, vanificato se non vengono tutti chiamati ad un maggiore senso di responsabilità».

Il manifesto “Mare senza Trivelle” boccia senza mezzi termini la petrolizzazione dei nostri mari: «La ricerca e la produzione di idrocarburi sono un impatto e un rischio che non è ragionevole sopportare e che non intendiamo consentire». Greenpeace e il Coordinamento Pesca dell’Alleanza delle Cooperative Italiane chiedono a tutti gli amministratori locali i cui territori sono interessati da queste attività di utilizzare ogni strumento amministrativo e giuridico che rientri nelle loro prerogative, per scongiurare la “deriva fossile” dei nostri mari».

Pescatori e ambientalisti concludono chiedendo al governo nazionale «un confronto immediato e approfondito, chiarendo sin d’ora che eventuali misure di cui già si parla per compensare il settore della pesca per la riduzione degli spazi fisici sottratti all’attività dalle concessioni petrolifere sarebbero comunque insufficienti, e inutili, per compensare i danni che deriverebbero da tali attività, e a maggior ragione da eventuali incidenti. Peraltro la pianificazione dello spazio marittimo, ormai nelle agende internazionali, andrebbe con urgenza affrontato nel quadro della politica marittima integrata e non scavalcato da fughe in avanti di singoli settori. I danni colpirebbero direttamente e indirettamente il comparto della pesca, considerando gli effetti estesi e sistemici a un bene comune di valore inestimabile – il mare – per il quale non si possono prevedere efficaci “risarcimenti” di alcuna natura».