Strada segnata, ma l'ultima parola spetta al presidente Mattarella

Petrolio, il governo boicotta l’election day: per il referendum la data è il 17 aprile

La decisione arrivata al termine del Consiglio dei ministri, nonostante le pressioni ambientaliste: così si sprecano 300 milioni di euro

[11 Febbraio 2016]

Si terrà domenica 17 aprile il referendum sulle trivellazioni petrolifere. La decisione arrivata dal Consiglio dei ministri, conclusosi nella serata di ieri, è stata comunicata con una stringata nota al termine della seduta: «Il Consiglio dei ministri ha approvato il decreto per l’indizione del referendum popolare relativo all’abrogazione della previsione che le attività di coltivazione di idrocarburi relative a provvedimenti concessori già rilasciati in zone di mare entro dodici miglia marine hanno durata pari alla vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale. La consultazione si terrà il 17 aprile 2016».

Un quesito, quello sulla durata delle concessioni petrolifere nella zona di interdizione (12 miglia marine) dalla costa, che è l’unico rimasto in piedi dopo l’esame della Corte costituzionale: gli altri 5 – a presentare tutti e 6 i quesiti sono state 9 regioni – sono andati a cadere semplicemente perché il governo si è già trovato costretto a fare marcia indietro rispetto a quanto precedentemente deliberato. Dopo la decisione arrivata ieri dal Cdm torna però in scena un confronto assai muscolare. Nonostante le richieste di molte associazioni ambientaliste, riunitesi nella mattinata di ieri davanti a Montecitorio per chiedere un election day che accorpasse il voto per il referendum a quello per le ormai prossime amministrative, il governo ha deciso di tirare dritto e proporre una data a sé stante, e dunque due diverse tornate elettorali. Niente di illegale, è bene precisarlo: le date possibili rientravano tra il 15 aprile e il 15 giugno.

Come tutte le decisioni però, quella del governo si porta dietro delle conseguenze. Come non hanno mancato di sottolineare ieri gli ambientalisti, non puntare sull’election day non solo non incoraggia la partecipazione democratica dei cittadini al voto – dando ragione a quanti vedono in questa scelta una triste strategia governativa per puntare al fallimento del referendum –, ma soprattutto sperpera un ingente ammontare di risorse pubbliche, stimato in 300 milioni di euro: quanto necessario per organizzare, lungo tutto lo Stivale, seggi e personale necessario a una singola votazione. Accorpando la data per referendum ed amministrative (come già accaduto in passato), questi 300 milioni di euro avrebbero potuto essere risparmiati, o meglio investiti: basti pensare che nell’ultima legge di Stabilità, le risorse individuate dall’esecutivo a tutela dei mari italiani ammontano a 10 volte meno.

«È una decisione antidemocratica e scellerata, una truffa pagata coi soldi degli italiani – è il duro commento di Andrea Boraschi, responsabile della campagna Clima ed energia di Greenpeace – Renzi sta giocando sporco, svilendo la democrazia a spese di tutti noi. È chiarissima la sua volontà di scongiurare il quorum referendario, non importa se così si sprecano centinaia di milioni di soldi pubblici per privilegiare i petrolieri. L’allergia del premier alle prassi del buon governo, però, troverà questa volta risposte nuove, ovviamente democratiche e pacifiche». L’auspicio è che ora che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, cui spetta l’atto ultimo di indizione del referendum, respinga la data proposta dal governo per consentire una votazione effettivamente democratica: per quale motivo, infatti, sarebbe migliore la strategia delle due date?

Greenpeace, semplicemente, avvalora la tesi che la decisione di fissare il voto al 17 aprile tradisca la paura del governo. Un sondaggio commissionato dall’associazione ambientalista all’Istituto Ixè lo scorso dicembre evidenziava come solo il 18 per cento degli italiani fosse favorevole alla strategia energetica del governo, mentre il 47 per cento si dichiarava già sicuro di andare a votare per esprimersi sull’avanzata delle trivelle.

«La decisione del governo di fissare il referendum sulle trivellazioni in mare tra due mesi, e di non accogliere la richiesta di accorpare il referendum prossime alle elezioni amministrative, è l’ulteriore dimostrazione che questa consultazione disturba –  rincara la dose Rossella Muroni, presidente di Legambiente – Evidentemente l’esecutivo teme che gli italiani ne valutino fino in fondo la portata.  Non solo: va ricordato che, sulle trivelle, dinanzi alla Corte costituzionale pendono ancora due conflitti di attribuzione, la cui ammissibilità verrà decisa a breve. Qualora il giudizio della Corte dovesse essere positivo, il referendum potrebbe svolgersi su tre quesiti e non solo su uno. Questo elemento però il Governo non lo ha proprio considerato e adesso si rischia anche il paradosso che gli italiani, dopo il 17 aprile, potrebbero essere nuovamente chiamati a votare, sullo stesso tema, in una terza data, con ulteriore spreco di risorse». Da 300 a 600 milioni di euro di possibile spreco, dunque. Un bel risultato, per un governo che al momento del suo insediamento si è presentato agli italiani come campione di spending review.

«Il mancato accorpamento del referendum “no triv” con le elezioni amministrative è una scelta insostenibile sia dal punto della tutela ambientale, che da quello dei conti dello Stato – chiosa Dante Caserta, vicepresidente del Wwf Italia – Con 300 milioni di euro si potrebbe rendere più sicuro il nostro Paese agendo sul dissesto idrogeologico, si potrebbero disinquinare i nostri fiumi e i tanti tratti di mare oggi non balneabili, si potrebbe potenziare il trasporto pubblico e migliorare la vita e la salute di milioni di pendolari, si potrebbe finanziare il sistema delle aree naturali protette italiane. Si preferisce invece sprecare tutti questi soldi e obbligare i cittadini italiani a recarsi alle urne quattro volte nel giro di pochi mesi. La politica del Governo si conferma una politica “fossile”, nella sostanza e nei metodi».