Denunciando la gravità della crisi non parla mai delle sue origini: colonialismo europeo e interventi militari

Profughi: la crisi si risolve fermando le guerre

Il Capo di Stato maggiore Usa: «I profughi problema enorme per i prossimi 20 anni»

[4 Settembre 2015]

Mentre la Commissione europea sta lavorando a un nuovo piano – scritto sotto dettatura di Merkel e Hollande – per redistribuire 160.000 profughi arrivati in Italia, Grecia e Ungheria, mentre il governo neofascista ungherese stende inutili barriere di filo spinato e dirotta i treni dei migranti, mentre l’Alto commissario Onu per i rifugiati, Antonio Guterres, esorta l’Ue a mettere in atto un “programma di ricollocazione di massa” per  circa 200.000 rifugiati, vengono a mente le parole di Zygmunt Bauman: «Le porte possono anche essere sbarrate, ma il problema non si risolverà, per quanto massicci possano essere i lucchetti. Lucchetti e catenacci non possono certo domare o indebolire le forze che causano l’emigrazione; possono contribuire a occultare i problemi alla vista e alla mente, ma non a farli scomparire».

E’ quello che sembra pensare anche il generale Martin Dempsey, capo di stato maggiore delle forze armate Usa, che in un’intervista ad Abc News  ha definito «un problema enorme» la migrazione verso l’Europa dalla Siria e dal Nord Africa, e ha detto che i militari Usa e la Nato sono sempre più consapevoli «che questa è una vera e propria crisi».

Anzi, per Dempsey la questione dei migranti è «la questione più importante» che i capi militari Usa e Nato discutono da mesi nelle loro riunioni periodiche: «Gli europei del sud sentono di non avere abbastanza sostegno per questa sfida, i leader dell’Europa centrale e settentrionale si comportano come se si trattasse di un problema che deve essere affrontato a sud. Anche se credo che ci stia cominciando a essere un po’ di consapevolezza che questa è una vera crisi».

Dempsey ha detto che la questione dei migranti in fuga dalla violenza in Siria e in Nord Africa è «una cosa che mi preoccupa» e ha aggiunto che una delle cose che è cambiata da quando presiede il Joint Chiefs of Staff «è l’importanza del problema di questi rifugiati e sfollati interni, è un problema enorme». Dempsey forse si può permettere questa velata autocritica perché il suo mandato scade il primo ottobre, quando il suo posto verrà preso dal generale della Marina Dunford, ma denunciando la gravità della crisi non parla mai delle sue origini: il colonialismo europeo in Medio Oriente e dopo gli interventi statunitensi con le coalizioni di volenterosi o la Nato (Iraq, Somalia, Afghanistan, Libia, Siria, Yemen…), che prima hanno tracciato sulla sabbia una mappa del Medio Oriente che rispondeva alle zone di influenza occidentali e poi hanno avviato guerre petrolifere per assicurarsi le risorse energetiche e abbattere dittatori che da amici erano improvvisamente diventati scomodi.

Anche il commento di Dempsey sul piccolo kurdo di tre anni annegato sulle coste turche è segnato da un velo di ipocrisia e di dimenticanza. Secondo il generale Usa, quelle foto potrebbero avere «un effetto simile a quella del 1995 del mortale attacco con i mortai alla piazza del mercato di Sarajevo, che spinse verso l’intervento della Nato in Bosnia. Ricordo che il mondo si fermò e guardò a Sarajevo. Oggi, mentre stiamo seduti qui, ci sono 60 milioni di rifugiati nel mondo, 42.000 famiglie al giorno secondo le Nazioni Unite». Ma quel bambino morto che ha commosso il mondo è frutto della sporca guerra avviata dall’Occidente e dalle monarchie del Golfo in Siria, che ha trasformato la protesta democratica contro la dittatura di Bashir al Assad in una guerra settaria, che ha fatto nascere lo Stato Islamico Daesh. Quel bambino che ha conosciuto solo guerra e che aveva visto per la prima volta il mare nel quale è annegato veniva da Kobane, la città martire del Rojava, dove le milizie progressiste turche – le stesse che in queste ore subiscono i bombardamenti di un Paese Nato, la Turchia – hanno sconfitto le milizie islamo-fasciste del Daesh. E’ in questa serie infinita di ingiustizie, di scelte geopolitiche crudeli, di oppressione dei diritti del popolo kurdo, delle furbizie francesi, britanniche e italiane in Libia, dell’appoggio ai dittatori amici come quello che ha trasformato l’Eritrea in una prigione e in una camera di tortura, che nascono i 60 milioni di rifugiati che, come dice Dempsey sono «un problema che i leader futuri dovranno affrontare per decenni», organizzando risorse ad un livello sostenibile per affrontare questo sconvolgimento planetario «per almeno 20 anni».

Ma Dempsey e i vertici della Nato e le cancellerie occidentali per risolvere il problema dei profughi farebbero bene a dare retta a un altro bambino, a quel profugo siriano triste e fiero allo stesso tempo che – ripreso da Al Jazeera mentre rispondeva a un poliziotto ungherese – ha detto una verità che in troppi non dicono, che in troppi fanno finta di scordarsi: «La polizia non ama i siriani in Serbia, in Macedonia, in Ungheria o in Grecia. Fermate la guerra e non verremo in Europa. La Siria ha bisogno di aiuto».

Appunto, le guerre, come insegna anche la tragedia del sanguinoso smembramento della Yugoslavia, bisogna impedirle, non farle. E per questo ci vogliono politici che amino i loro popoli, non demagoghi xenofobi o generali pentiti per guerre volute da politici che credono che gli uomini, le donne e i bambini del mondo siano pedine su una scacchiera geopolitica, innumerevoli pedoni da sacrificare nella partita per le risorse e il dominio, scarti da lasciare annegare nelle onde dell’Egeo o del Canale di Sicilia.