Al confine della guerra. Tra i profughi bambini siriani in Turchia (FOTOGALLERY)

«Mi sento completamente disarmata di fronte a tanta sofferenza»

[13 Giugno 2016]

Perla Azzurra Buonaccorsi, la giovane volontaria che a maggio ci ha permesso di pubblicare il suo diario dal campo profughi ora smantellato di Idomeni, al confine tra Grecia e Macedonia,  ora è in missione a Kilis, al turbolento  confine tra Turchia e Siria, a una trentina di Km da Aleppo, dove la guerra civile e internazionale siriana continua in tutta la sua crudele ferocia.

Ecco il suo nuovo emozionante ed emozionato diario al confine della guerra, tra profughi bambini e giovani madri.

 

Primo giorno – Kilis. Confine turco-siriano.

30 km in linea d’aria da Aleppo.

Camminiamo dentro la Storia. Una parte di Storia che non avremmo mai voluto vivere.
Kilis.
Decine di centinaia di famiglie siriane fuggite dal clamore della guerra, nascoste in silenzio in casolari, stalle, garage abbandonati di questa splendida, meravigliosa città di frontiera.

Rifugi abbandonati da chi, prima di loro, è fuggito dal fragore dei missili, dalla certezza della morte.
Da questo confine sono verosimilmente passati più di 4 milioni di profughi.

La nostra è una guida di eccezione: Mimmo, il gigante buono. Ci fa strada anche dove la strada, di fatto, non c’è più.

Famiglia dopo famiglia, bambino dopo bambino, stanza dopo stanza.

Storia dopo storia.

Portiamo ciò di cui c’è più bisogno, caso per caso: latte in polvere, pannolini, vestiti. Abbiamo una lista di tutti i marmocchietti nascosti nelle vicinanze – un elenco di nomi e date di nascita costantemente e diligentemente aggiornato da Mimmo – e questo ci facilita molto nella preparazione e consegna di ogni busta di sostegno.

I bambini sono straordinari, nonostante negli occhi di alcuni si intravedano ancora le fiamme dell’inferno.
Alcuni, i segni di quelle fiamme, li portano anche sul viso, sulle braccia, sui piedini scalzi.

In una famiglia, troviamo una sorella in meno rispetto all’ultimo aggiornamento della lista. La madre ci racconta che, per decisione del padre, l’hanno fatta sposare, e che adesso è andata a vivere lontano col marito. Una bocca in meno da sfamare per loro, che hanno altre tre figlie piccole e vivono in una stalla. La neo sposa ha solo 15 anni.

Tra una “casa” e l’altra, saliamo in cima alla collina di Kilis: hanno appena bombardato non molto lontano da noi, oltre il confine. Vediamo le colonne di fumo nero salire rapidamente nel cielo dopo l’impatto, proprio di fronte ai nostri occhi.

Le mie parole si perdono oltre la sconfinata vallata. Perché è facile parlare di guerra senza averla mai vista, senza saperne nulla, senza conoscerne gli effetti devastanti sulla vita – ma quando ti ci trovi davanti capisci che le parole giuste, in realtà, non esistono. Esistono, al più, silenzi giusti, e forse, in taluni casi, neanche quelli.

Fatima ha 17 anni.

Fino a pochissimo tempo fa, viveva con sua madre, suo padre e i suoi tre fratelli in un quartiere di Aleppo. Andava a scuola, studiava inglese. Sono rimasti a “casa loro” finché hanno potuto, pur sotto assedio.
Una sera, Fatima non è rientrata da scuola. L’hanno ritrovata due giorni dopo, distrutta, dopo che era stata ripetutamente stuprata dai militanti dell’Isis o forse da qualche ribelle, chi sa.

Avrebbe potuto abortire, ma i genitori non hanno voluto, perché è peccato.

È arrivata qui a Kilis al quarto mese di gravidanza, tra 4 giorni le scade il tempo. Oggi vive in un edificio diroccato e abbandonato, con il tetto in plastica, senza denaro. Nonostante questo, i suoi ci offrono subito un bicchiere di aranciata. È periodo di Ramadan e Fatima non vuole mangiare nulla – e questo, fondamentalmente, nella sua attuale situazione fisica, è un gran casino.

Mi sento completamente disarmata di fronte a tanta sofferenza.

Cercare di farla ridere è quasi impossibile. Quasi. Ogni tanto ci guardiamo e un accenno di sorriso riesco a cavarglielo fuori, forse perché ho solo sei anni più di lei, forse perché potrei esserci stata io al suo posto se soltanto fossi nata da questa parte di mondo, e invece no.

Io ho un debito enorme con la vita, la vita ne ha uno stratosferico con Fatima.

Quando torniamo a casa manca un’ora alla fine del Ramadan di oggi.

Alle 20 ci sediamo a cena tutti insieme: noi sei, Mimmo e la sua famiglia. Alle 20:30 sentiamo passare i primi caccia della nottata, ricominciano i boati nel cielo.

Non molto lontano da noi ricomincia da capo l’inferno per chi, dopo 17 ore di digiuno e paura, si era appena concesso un minuto di sollievo con i propri cari per mangiare un boccone.

“Mentre tu hai una cosa può esserti tolta. Ma quando tu dai, ecco, l’hai data. Nessun ladro te la può rubare. E allora è tua per sempre.”

James Joyce

 

Secondo giorno – Kilis, confine turco-siriano.

Siamo ancora qua.

La nottata passa relativamente tranquilla, con i canti notturni delle moschee che si alternano ai violenti rumori della guerra: il rombo dei caccia in volo verso la Siria sopra le nostre teste mezze addormentate, le pallottole e gli spari non lontani dal nostro palazzo.

Mi sveglio per terra e con il sole che picchia forte sul viso. Sono le 7 ora locale e fa già caldissimo.
Gli obiettivi di oggi sono pochi, ma ci terranno impegnati – testa e cuore – fino a sera.

Dobbiamo ancora far visita a molte famiglie rifugiate, tornare da alcune già conosciute ieri, andare a comprare e successivamente consegnare più di 400 focacce di pane per altrettanti pancini affamati, e circa 150 paia di ciabattine per piedini scalzi di tutte le misure.

Per strada, Mimmo ci mostra i luoghi d’impatto di alcuni missili e bombe caduti sulla città di Kilis nelle scorse settimane.
Giardini, cortili, palazzi.

Sulle facciate di alcuni edifici sembra sia passato uno stuolo di mitragliatrici a raffica: le schegge dell’esplosione hanno bucherellato pareti e tetti riducendoli a dei colabrodo.

Dei tanti missili caduti qua intorno, uno ha colpito il rifugio provvisorio di tre fratellini orfani, arrivati qua dalla vicinissima Siria, dopo aver perso entrambi i genitori durante il viaggio per la salvezza.
Sono rimasti uccisi tutti e tre, qui, aldilà del confine. Come se la mamma e il papà li avessero richiamati. Come se il fantasma di una guerra che non appartiene loro li stesse ancora perseguitando, anche quando poteva esser parso di essere finalmente al sicuro. Nel dolore, ma al sicuro.

Kilis, in realtà, è effettivamente un posto abbastanza sicuro.

Ogni tanto può cadere qualche bomba, un paio di missili, di notte possono innescarsi delle sparatorie.
Ma siamo lontani anni luce dalle tenebre: questa città non ha niente a che vedere con il quotidiano inferno e il continuo terrore che attanagliano Aleppo, Azaz, e tante altre città siriane, a poche decine di chilometri da qui, oltre il “border”.

Soffitta.
Mamma sola, quattro bambini, un neonato dentro una culla di fortuna appesa al soffitto. Il marito si è allontanato più di quattro mesi fa per cercare lavoro. Non è più tornato, né ha più dato notizie certe.
Abbraccio da dietro una delle figlie più piccole: respira malissimo. Le poggio una mano sul torace, e ancora prima di tirar fuori il fonendoscopio è già chiaro a tutti che alla lista di cose da fare oggi dovremo aggiungere anche un salto urgente in farmacia.

Purtroppo non sarà l’unica bambina della giornata la cui salute desterà tra di noi parecchia preoccupazione.

La consegna del pane è a rischio assalto: dopo aver caricato otto casse piene di focacce sul nostro prode furgoncino, iniziamo a distribuirle spostandoci man mano in zone diverse, per cercare di coprire più terreno possibile e non creare scompiglio, anche se quasi sempre ci troviamo circondati da manine tese verso l’alto e da tantissimi cuoricini affamati di cibo tanto quanto di amore.

Piano terra.

In una famiglia da noi sostenuta, troviamo una piccolina siriana di neanche un mese. Si chiama Lucein. Essendo appena nata, è l’unica marmocchietta della famiglia a non avere ancora un sostegno, un’adozione a distanza.

Siccome nel giro di mezzo secondo me la ritrovo tra le braccia, decido di farlo io. E quindi nulla, da oggi ho una sorellina siriana.

30 euro mensili per farle avere, ogni mese, pannolini, latte, vestitini in abbondanza, nonché l’incomparabile presenza di Mimmo qualora ci fosse bisogno in loco per qualsiasi emergenza.

Con l’equivalente di un caffè in meno al giorno (o una pizza fuori in meno col vostro moroso), è possibile sostenere a distanza tanti cuccioli rifugiati come Lucein.

Ma non crediate, facendolo, che questo sia “aiutarli a casa loro”, perché proprio non lo è.
Casa loro gliel’abbiamo un po’ distrutta anche tutti noi.

Il silenzio e l’indifferenza, certe volte, fanno più danno delle bombe.

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di Perla Azzurra Buonaccorsi (pesciolinorosso)