Siria: la speranza dalla cenere. Cronaca della resistenza di Serekaniye

Come le combattenti kurde e i volontari internazionalisti hanno fermato l’esercito turco e i mercenari jihadisti

[18 Ottobre 2019]

Da nove giorni alcune centinaia di volontari socialisti delle Unità di Autodifesa e di Difesa delle Donne YPG/YPJ (Yekîneyên Parastina Jin, ndr) e combattenti delle Syrian Democratic Forces impediscono a un esercito della NATO di occupare una cittadina. Serekaniye, in arabo Ras al-Ain, si trova sul lato siriano del confine di fronte alla città turca Ceylanpinar e già nove giorni dopo l’invasione dell’esercito turco e delle sue truppe jihadiste FSA (Feee Syrian Army, ndr) è solo detriti e macerie.

Da nove giorni jet da combattimento bombardano dal cielo, l’artiglieria da lontano e carri armati dal cerchio dell’assedio ogni singola casa nella città – ospedale e scuole compresi. Un convoglio civile che era arrivato in città a sostegno delle e dei combattenti, il 13 ottobre è stato attaccato in modo diretto. Quante persone di preciso siano state assassinate finora a Serekaniye dalle truppe di Erdogan è difficile da dire. nell’ospedale principale a al-Hasakah da Serekaniye vengono portati bambini con ustioni gravissime, civili mutilati/e, combattenti feriti/e al loro ultimo respiro.

Serekeniye è un inferno di fuoco e cenere. Un logo che rende tristi e furiosi. Com’è possibile una cosa del genere? Perché ai miseri interessi di guerrafondai imperialisti, assassini, vengono sacrificate così tante vite umane? Chi guarda a Ras al-Ain solo da questo punto di vista deve disperare.

Ma Serekaniye oggi è più di questo. E’ un simbolo di speranza, per quanto sbagliato questo possa sembrare a un primo sguardo. Serekaniye è, come nel 2014 Kobane, un segnale chiaro di un movimento che non si sottomette, per quanto possano essere avverse le circostanze. Ogni notte arrivano i bombardieri. E ogni mattina Ersin Caksu per l’agenzia stampa curda ANF si fa vivo dal cumulo di macerie della città, parla con chi la difende. Non sembrano tristi. Non sembrano disperati/e. Sembrano persone che sanno per cosa stanno combattendo. E per le quali è più importante condurre una vita magari breve nella dignità, che una lunga vegetando e nella schiavitù.

«Non si tratta di vivere o non vivere, ma di vivere nel modo giusto. Anche se la vita giusta non ci dovesse riuscire, la cosa più importante è non farsi mai distogliere da questa ricerca e essere un viandante su questo cammino», scrive Abdullah Öcalan, il precursore incarcerato del movimento di liberazione curdo. E con questo non si riferisce alla ricerca individuale di un qualche sempre nuovo stile di vita alla moda come la pratica una piccola borghesia che muore di noia. Intende la vita collettiva di una società delle e degli uguali, la Rehevaltî, la condivisione del cammino nella lotta, così come la convivenza solidale, democratica nella pace.

Ciò su cui l’esercito NATO si sta spaccando i denti da nove giorni a Serekaniye, è questa collettività. Non è il singolo soldato, addestrato come un marine statunitense. E non è nemmeno la tecnologia, di quella i e le difensori/e non ne hanno poi tanta. È l’amicizia e la comunanza reciproca che continua a far resistere, a far andare sempre avanti. Certo, le forze speciali delle YPG e YPJ sono eccellenti combattenti. Ma ciò che le e li fa esistere è il sapere rispetto a una rete nutrita da un’idea comune della vita, che inizia da loro, si estende passando per le madri che cuociono il loro pane, le e gli abitanti dei villaggi che aprono loro le porte, i e le reporter che restano con loro quando cadono le bombe, il personale medico che rammenda le e i loro feriti/e, fino alle compagne e ai compagni nelle montagne irachene, nelle metropoli turche o fino nel retroterra europeo o statunitense.

Il movimento kurdo ha scritto una storia che ha i suoi punti di riferimento. Dalla resistenza nelle carceri nella galera della tortura di Diyarbakir negli anni ‘80 fino alla difesa di Kobane contro lo Stato Islamico, questo racconto si estende fino alla minuscola città di confine Serekaniye. Ogni colpo che lì viene sparato da chi difende il Rojava è una lettera nel libro che questo movimento scrive.

E indipendentemente dal fatto se questa città cadrà o meno, queste lettere restano scritte. La domanda è se qualcun le leggerà. Se anche noi qui impareremo a capire la lingua in cui sono redatte.

di Peter Schaber

pubblicato su Lower Class Magazine e Rete Kurdistan Italia il 18 ottobre 2019