Inquinamento dell’aria e diffusione e mortalità del Covid-19 secondo il Cnr

Uno studio evidenzia le conoscenze scientifiche attuali, possibili conclusioni e ambiti di approfondimento

[21 Aprile 2020]

La diffusione planetaria del Covid-19 sembra chiaramente presentare, nei diversi focolai, notevoli differenze in termini di tassi epidemici e di mortalità che sollevano importanti interrogativi sull’influenza dei fattori atmosferici, naturali come la temperatura e l’umidità o antropici come l’inquinamento, sulla così elevata trasmissibilità e differenza di mortalità della malattia. Si tratta di un argomento complesso e con molti aspetti che richiedono ulteriori approfondimenti con approcci multidisciplinari e competenze diverse. Lo studio Does Air Pollution Influence COVID-19 Outbreaks?”, pubblicato su Atmosphere da Daniele Contini e Francesca Costabile dell’Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Isac) analizza la possibile correlazione tra l’inquinamento dell’aria e la diffusione e la mortalità del Covid-19, evidenziando le conoscenze scientifiche attuali, possibili conclusioni e ambiti di approfondimento. I due ricercatori del Cnr-Isac di Lecce e Roma spiegano che «Il lavoro affronta il problema con due distinte domande, riguardanti una l’influenza dell’esposizione pregressa a inquinamento atmosferico sulla vulnerabilità al Covid -19 e l’altra il meccanismo di trasporto per diffusione in aria senza contatto. E’ plausibile che la già avvenuta esposizione di lungo periodo all’inquinamento atmosferico possa aumentare la vulnerabilità degli esposti al Covid -19 a contrarre, se contagiati, forme più importanti con prognosi gravi. Tuttavia, deve ancora essere stimato il peso dell’inquinamento rispetto ad altri fattori concomitanti e confondenti. Peraltro, gli effetti tossicologici del particolato atmosferico dipendono in maniera rilevante dalle caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche, per cui non è immediato tradurre valori elevati dei parametri convenzionalmente misurati (PM2.5 e PM10), senza ulteriori caratterizzazioni, in una spiegazione diretta dell’aumento della vulnerabilità al Covid -19 o delle differenze di mortalità osservate. I dati recenti mostrano focolai in aree caratterizzate da livelli di inquinamento molto diversi tra loro, ma i dati sui contagi sono viziati da rilevante incertezza, legata all’attendibilità, precisione e completezza conteggi e alla modalità di esecuzione dei tamponi».

Inoltre la ricerca affronta la plausibilità della trasmissione del virus in aria (“airborne”) e, come sottolinea Contini, si tratta di «Un tema attualmente molto dibattuto e che riteniamo plausibile, anche se non è ancora stato determinato quanto incida rispetto ad altre forme di trasmissione quali il contatto diretto e il contatto indiretto tramite superfici contaminate, La trasmissione airborne può avvenire su due diverse strade: attraverso le goccioline di diametro relativamente grande (> 5 µm), emesse da una persona contagiata con starnuti o colpi di tosse, che sono rimosse a breve distanza (1-2 metri) dal punto di emissione; oppure attraverso il bioaerosol emesso durante la respirazione e con il parlato, o il residuo secco che rimane dopo l’evaporazione, generalmente di dimensioni più piccole (< 5 µm), che può rimanere in sospensione per tempi maggiori».

Ci sono quindi ancora ampi margini di incertezza e Contini e Francesca Costabile evidenziano che «Per valutare correttamente la probabilità di contagio attraverso quest’ultimo meccanismo, si deve inoltre distinguere tra ambienti interni (indoor) ed esterni (outdoor) ed è necessario tenere conto di molti parametri, tra cui le concentrazioni di virus in aria e il loro tempo di vita, due parametri poco noti: per il tempo di vita si parla di circa un’ora in condizioni controllate di laboratorio, mentre in esterno il tempo potrebbero essere ridotto dall’influenza dei parametri meteorologici come temperatura, umidità e radiazione solare, che possono degradare le capacità infettive del virus. In esterno, le concentrazioni di virus rilevate in aree pubbliche a Wuhan sono al limite della rilevabilità (< 3 particelle virali/m3), in confronto alle tipiche concentrazioni di particolato nelle aree urbane inquinate, che possono arrivare a 100 miliardi di particelle/m3. Pertanto, la probabilità di trasmissione con questo meccanismo in outdoor sembra essere molto bassa. Vi può ovviamente essere una maggiore probabilità in specifici ambienti indoor, come ospedali e aree in cui i pazienti sono messi in quarantena, o mezzi pubblici in cui viaggino molti contagiati. In questi ambienti, la sorgente è più intensa e la dispersione del virus in aria più limitata in termini spaziali, per cui si possono osservare concentrazioni più elevate e condizioni microclimatiche più favorevoli alla sopravvivenza del virus. In questi ambienti, è consigliabile mitigare il rischio per le persone suscettibili mediante la ventilazione periodica, la decontaminazioni delle superfici e l’utilizzo di sistemi di condizionamento con tecnologie appropriate, per limitare la circolazione di bioaerosol nell’ambiente indoor».

Il punto su Corinavirus e inquinamento lo fa anche ILBOLive dell’università di Padova con un’intervista di Barbara Paknazar a Fabrizio Bianchi, responsabile dell’unità di epidemiologia ambientale del Cnr di Pisa e membro della Rete italiana ambiente e salute.

Dopo aver passato in rassegna i recenti preoccupanti studi pubblicati da importanti riviste scientifiche internazionali e ripercorso la storia recente della diffusione dei coronavirus, Bianchi fa notare che «Su questo tema l’elemento che ha attratto l’attenzione dei ricercatori è stato il fatto che nella Pianura padana, che come noi tutti sappiamo è un’area molto inquinata per motivi di emissioni sia industriali che di traffico, ma anche per motivi meteo-climatici caratteristici della zona, i contagi di Covid-19 si sono addensati in modo particolare e così gli studiosi hanno cercato di capire se esiste una correlazione. Chiaramente la domanda è pertinente e per la verità ce la siamo fatta tutti: anche noi epidemiologi ambientali che a livello nazionale lavoriamo in rete da tantissimi anni ci siamo posti precocemente lo stesso interrogativo».

Ma l’epidemiologo del Cnr di Pisa mette in guardia dal rischio di dimenticare la natura virale dell’infezione da nuovo coronavirus: «Occorre sempre tener presente – sottolinea Fabrizio Bianchi – che siamo di fronte a un’epidemia da malattia virale e i primi determinanti di una malattia trasmissibile sono i contatti tra le persone, altrimenti finiremmo per trattare una malattia virale come se fosse una malattia non trasmissibile ed è un errore che non dobbiamo fare. Diversamente il rischio è quello di considerare la malattia Covid-19, dovuta all’infezione da virus Sars-Cov-2, come se fosse un infarto, un’infezione delle vie respiratorie, una broncopneumopatia cronica ostruttiva o una malattia respiratoria acuta. No, è una malattia virale che quindi necessita di essere trasmessa e le aree dove si trasmette sono effettivamente quelle più densamente popolate, quelle dove ci sono più scambi, dove le persone entrano maggiormente in contatto tra loro e verso il mondo esterno. E’ chiaro che molte di queste aree, avendo queste caratteristiche, sono anche inquinate: pensiamo a Wuhan, a New York, a Milano, all’area tra Cremona e Piacenza».

Per la Rete italiana ambiente e salute il rapporto tra inquinamento atmosferico e Covid-19 è sicuramente da approfondire Bianchi sottolinea: «Secondo noi, che abbiamo scritto un documento che fa un po’ il punto della situazione e che prelude al fatto che stiamo costruendo un grande studio nazionale con prime tappe anche veloci, l’interesse è capire se l’inquinamento da esposizione a particolato fine, da 1 a 10 micron, ha un ruolo diretto o ha un ruolo di modificatore di effetto. Sulle polveri c’è anche chi sostiene che possano trasportare il virus ma secondo noi per il momento non ci sono evidenze scientifiche su questo perché il virus è fatto in un certo modo: ha un involucro, degli spike sopra, l’Rna interno nel nucleo. E poi è molto suscettibile a effetti esterni e all’azione di ultravioletti, essiccamento, temperatura e umidità, tutte condizioni che possono arrecare danno all’involucro esterno e agli spike e rendere inattivo il virus. Senza un ospite il virus non ha una capacità infettante in sé e per essere infettante ha bisogno di avere una sufficiente potenza e poi trovare le condizioni adatte. Secondo noi l’idea che su ampi spazi ci sia questa capacità di carrier, cioè di portatore, è tutta da dimostrare. Naturalmente però è un dato interessante perché dal punto di vista della comunicazione del rischio è diverso dire alle persone che il virus si trasmette su scala locale, rispetto al dire che può trasmettersi su scala più vasta e che potrebbero arrivare delle polveri da lontano che trasportano virus. In questo secondo caso le persone fanno presto a trarre delle conclusioni, ma se pensiamo che la scorsa settimana sono arrivate delle polveri dal mar Caspio e hanno alzato il livello di inquinamento in una parte della Pianura padana, se queste polveri avessero portato anche il virus ci sarebbe un’altra ondata di possibile infezione. Quello che a noi però interessa maggiormente capire è se l’inquinamento può influire come modificatore di un effetto e sulla velocità di sviluppo della malattia perché questo è avvalorato da alcune osservazioni emerse in tanti studi che sono già stati pubblicati e che fanno vedere che c’è una comorbidità nel Covid-19 che riguarda le stesse patologie legate, in parte, anche all’inquinamento atmosferico».

Dopo aver analizzato i due studi dei quali si parla di più, quello del Sima e delle università di Bari e lo studio del team di statistici di Harward e ritenendo quest’ultimo «uno studio fatto con tutti i crismi. Al di là di alcuni problemi metodologici che noi abbiamo rilevato e che sarà poi valutato dai revisori che stanno analizzando il lavoro» Bianchi evidenzia che «Se però provassimo ad applicare i risultati dello studio di Harward otterremmo dei numeri davvero enormi e l’inquinamento diventerebbe il principale determinante della letalità. Noi invece continuiamo a pensare che in una malattia virale, quindi trasmissibile, il principale determinante sia proprio la trasmissione e tutte le condizioni che la favoriscono. L’inquinamento quindi può essere molto importante ma con un ruolo di co-fattore, non di fattore principale. Siamo molto attenti ad approfondire tutti gli studi che vengono pubblicati perché sono tutti importanti, però lavorando in un gruppo multidisciplinare come la Rete italiana ambiente e salute – che dentro ha l’Istituto superiore di sanità, il Cnr, dipartimenti di prevenzione di Asl, Regioni, tutto il sistema nazionale di protezione ambientale e quindi le Arpa, diverse università e con molte professionalità diverse perché ci sono gli statistici, gli epidemiologi, gli esperti ambientali, i tossicologi – abbiamo scelto di lavorare partendo dall’idea di verificare qual è il ruolo dell’esposizione a particolato, sia a lungo che a breve termine, come co-fattore o modificatore degli effetti dell’infezione anche nel legame con la comorbidità».