Le microplastiche nel piatto, dal pesce ai frutti di mare. Greenpeace: «Una bomba tossica a orologeria»

«Adottare al più presto il bando alla produzione e uso di microsfere di plastica nel nostro Paese»

[29 Agosto 2016]

La cattiva gestione del ciclo integrato dei rifiuti sta trasformando rapidamente un materiale altrimenti utile e versatile, la plastica, in un pericolo pervasivo per l’ambiente marino. Una conferma viene oggi dal rapporto tecnico “Plastics in Seafood – full technical review of the occurrence, fate and effects of microplastics in fish and shellfish”, realizzato da Kathryn Miller, David Santillo e Paul Johnston dei Greenpeace Research Laboratories, che sottolinea: «Sempre più plastica viene ingerita dagli organismi marini e può risalire la catena alimentare fino ad arrivare nei nostri piatti».

Il rapporto, che raccoglie i più recenti studi scientifici sugli impatti delle microplastiche – incluse le microsfere – sul mare e quindi su pesci, molluschi e crostacei, evidenzia  che La presenza di frammenti di plastica negli oceani è un problema noto da tempo ma in crescita esponenziale. Una volta in mare, gli oggetti di plastica possono frammentarsi in pezzi molto più piccoli, e diventare microplastica» e fornisce «indicazioni allarmanti degli impatti delle microplastiche su vari organismi marini, tra cui specie di pesci e molluschi comunemente presenti nei nostri piatti, anche se gli effetti sulla salute umana sono ancora troppo poco studiati».

Greenpeace Italia, che ha realizzato una sintesi del rapporto in Italiano dice che «La presenza di frammenti di plastica negli oceani è un problema noto da tempo e sempre più drammatico. Mentre la produzione globale di plastica aumenta in modo esponenziale – erano 204 tonnellate nel 2002, 299 tonnellate nel 2013 –  i nostri mari sono sempre più inquinati e la salute degli organismi marini sempre più a rischio. L’inquinamento causato dalla plastica che finisce in mare è visibile a tutti, ma non tutti sanno che sono proprio i frammenti di plastica più piccoli quelli più pericolosi: a causa delle ridotte dimensioni – diametro o lunghezza inferiore ai 5 mm – le microplastiche possono essere involontariamente ingerite da un numero enorme di organismi e possono assorbire più contaminanti tossici (a parità di peso) dei frammenti di maggiori dimensioni».

Con il nuovo rapporto  Greenpeace  mette nel mirino proprio le microplastiche e spiega che «Possono essere state prodotte dall’industria (come le microsfere utilizzate in molti prodotti cosmetici o per l’igiene personale) o derivare dalla degradazione in mare di oggetti di plastica più grandi per effetto del vento, del moto ondoso o della luce ultravioletta. Gli organismi marini possono ingerirle in diversi modi: gli organismi filtratori, come le cozze, le vongole e le ostriche, possono semplicemente contaminarsi con l’acqua che filtrano per nutrirsi, mentre i pesci possono ingerirle sia direttamente, scambiandole per prede, che attraverso il consumo di prede contaminate. In entrambi i casi le conseguenze sono gravi: possono verificarsi lesioni negli organi dove avviene l’accumulo o trasferimento di contaminanti tossici dai frammenti di plastica ai tessuti degli organismi che li ingeriscono. Non finisce qui. La contaminazione può risalire la catena alimentare e arrivare dritta sulle nostre tavole. Gli studi scientifici che riguardano il possibile effetto tossicologico generato dall’ingestione di cibo contaminato con microplastiche nell’uomo sono ancora agli albori, ma il rischio che attraverso l’alimentazione si possano ingerire microplastiche è assai concreto soprattutto nel caso dei molluschi, che sono consumati interi».

Secondo l’associazione ambientalista, «La situazione è grave e occorre agire subito applicando il principio di precauzione».  Per questo Greenpeace chiede di «adottare al più presto il bando alla produzione e uso di microsfere di plastica nel nostro Paese: su iniziativa dell’associazione Marevivo è stata già presentata una proposta di legge. Si tratta di una misura necessaria per fermare al più presto il consumo umano di questi materiali».