A mani nude: i costi umani e ambientali dello smantellamento delle navi

Devastazione ambientale e condizioni di lavoro insostenibili: una vergogna mondiale

[4 Gennaio 2018]

«Che fine fanno le grandi imbarcazioni commerciali una volta esaurito il loro ciclo di vita? Dopo anni di mare le navi da carico, quelle container, le petroliere, o ancora le navi da crociera ed i traghetti, vengono spesso vendute per essere rottamate. La loro rotta finale è quasi sempre verso l’Asia. Quello che avviene in quei luoghi è una storia di smantellamento illegale, devastazione ambientale e sfruttamento di migliaia di persone, sottopagate e costrette a lavorare a stretto contatto con materiali altamente tossici e inquinanti».

È la sporca storia raccontata in un progetto fotografico promosso da Legambiente e NGO Shipbreaking Platform e inaugurato oggi a Roma da RED via Tomacelli, lo spazio nel centro della Capitale dove si coniuga l’amore per il libro con la passione per il cibo di qualità. NGO Shipbreaking Platform è una coalizione internazionale composta da 20 organizzazioni, tra cui in Italia la stessa Legambiente, che si occupa della protezione dei diritti umani, dei lavoratori e di tutela dell’ambiente nel settore dello smantellamento navale. Lavora da anni a stretto contatto con vari organi europei per agire sul miglioramento della legislazione ed è riuscita ad ottenere già i primi riscontri positivi arrivando ad un nuovo Regolamento Ue sul riciclaggio delle navi.

La mostra – che si compone di 12  foto e che rimarrà esposta fino all’11 gennaio, è già stata esposta al Parlamento Europeo a Bruxelles ed è stata realizzata dal graphic designer Isacco Chiaf e da Tomaso Clavarino, giornalista e fotografo, che sono andati in Bangladesh e in India per documentare le attività di demolizione di queste navi.

Legambiente sottolinea che «Il fenomeno dello smantellamento selvaggio delle navi in Asia meridionale è in forte crescita negli ultimi anni. Solo nel 2016 ben 668 imbarcazioni, cioè l’87% di tutta la stazza lorda smantellata globalmente, sono state infatti demolite nelle zone costiere di paesi che non rispettano standard minimi di protezione ambientale e sono noti per lo sfruttamento del lavoro minorile. Le navi vengono arenate sulle spiagge dell’India, del Bangladesh e del Pakistan, dove sono fatte a pezzi manualmente da lavoratori, per lo più migranti, nelle ampie zone intertidali». Secondo NGO Shipbreaking Platform, «Proprio in Bangladesh, si trovano i cantieri con le peggiori condizioni di lavoro e di smaltimento dei rifiuti tossici presenti nelle strutture delle imbarcazioni».

Tra i Paesi che ogni anno contribuiscono a incentivare questa pratica vergognosa nel sub-continente indiano c’è anche l’Italia: «Negli ultimi sette anni circa 100 navi appartenenti ad armatori italiani sono state smantellate sulle spiagge dell’Asia meridionale e in alcuni casi addirittura violando normative europee ed internazionali», denunciano le due organizzazioni.

Sebastiano Venneri, responsabile nazionale mare di Legambiente, spiega che «Ogni anno circa mille navi raggiungono la fine del loro ciclo di vita e vengono smantellate per recuperare acciaio ed altri materiali utili La demolizione navale è un’attività pericolosa che richiede la presenza di misure adatte a proteggere l’ambiente marino, ad assicurare un corretto smaltimento dei rifiuti tossici ed a garantire elevati standard in tema di sicurezza e salute per i lavoratori. Eppure solo poche navi vengono rottamate in modo sicuro e sostenibile. Una situazione che oggi non è più tollerabile. L’Italia non è esente da queste pratiche e proprio per questo occorre far pressione anche sugli armatori nazionali perché evitino procedure illegittime ed economicamente vantaggiose e individuino piuttosto soluzioni sostenibili in grado di garantire un riciclaggio navale sicuro e pulito».

La direttrice della NGO Shipbreaking Platform, Ingvild Jenssen, conclude: «L’anno passato abbiamo assistito non solo ad un aumento sul mercato di pratiche di smantellamento pericolose e inquinanti, ma abbiamo documentato addirittura un numero record di imbarcazioni di proprietà europea fatte a pezzi sulle spiagge dell’India, del Pakistan e del Bangladesh. Siamo di fronte a un esempio di colonialismo tossico. È scandaloso che il peso dell’avidità di espansione e di profitto dell’industria navale europea debba essere sostenuto dalle comunità e dai lavoratori dell’Asia meridionale».