Per spargere microplastiche, basta aprire una bottiglia di plastica o un pacchetto di patatine

Trovate microplastiche in un quarto dei pesci della Baia di San Diego

[24 Marzo 2020]

Basta aprire imballaggi di plastica che utilizziamo tutti i giorni, come le bottiglie di plastica o i sacchetti di patatine, per produrre microplastiche che poi consumiamo quotidianamente. A dirlo è lo studio “Microplastics generated when opening plastic packaging” pubblicato su Nature Scientific Reports da un team di ricercatori del Global Center of Environmental Remediation dell’università australiana di Newcastle che, per determinare la quantità di microplastiche prodotte, ha testato diversi metodi di apertura degli imballaggi: strappandoli, usando le forbici e torcendoli.

I ricercatori guidati da Cheng Fang hanno così scoperto che «di conseguenza, vengono generati fibre, frammenti e pezzi triangolari di plastica, che vanno da una dimensione di nanometri a millimetri» e hanno che «Si potrebbero produrre da 10 a 30 nanogrammi (0,00001-0,00003 milligrammi) circa di microplastiche per 300 centimetri di plastica, a seconda dell’approccio di apertura e delle condizioni della plastica, come rigidità, spessore o densità». A esempio, tagliare una bottiglia di soda con un paio di forbici ha prodotto più microplastiche che strappare una busta di cioccolatini. Tuttavia, tutti i metodi hanno prodotto sempre un inquinamento microscopico da plastica.

Secondo Fang, «In questa fase, non ci sono abbastanza informazioni per determinare se ci sono rischi a seguito di questa ingestione di microplastica, quindi speriamo di continuare il nostro lavoro e determinare le implicazioni per la salute».

Anche se nel 2019 il rapporto “Microplastics in drinking-water” dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha concluso che gli effetti delle microplastiche probabilmente non sono, ha anche ammesso che ciò si basava solo su una quantità limitata di prove e c’è molto altro da scoprire.

Infatti, i ricercatori australiani dicono che i loro risultati dovrebbero preoccuparci: «Questa scoperta invia un avvertimento importante: se siamo preoccupati per le microplastiche e ci preoccupiamo di ridurre la contaminazione da microplastiche, dobbiamo fare attenzione quando apriamo gli imballaggi in plastica».

E la conferma dell’onnipresenza delle microplastiche arriva da un altro studio – “Natural history matters: Plastics in estuarine fish and sediments at the mouth of an urban watershed” – pubblicato recentemente su PLOS ONE da Theresa Sinicrope Talley, Nina Venuti e Rachel Whelan dell’università della California – San Diego che hanno analizzato campioni di pesce provenienti da un’insenatura che sfocia nella baia di San Diego, scoprendo che «Quasi un quarto contiene microplastiche».

Le tre ricercatrici hanno esaminato la plastica presente nei sedimenti costieri e tre specie di pesci, dimostrando che «La frequenza e i tipi di plastica ingerita variavano con le specie di pesci e, in alcuni casi, con la dimensione o l’età dei pesci«, aggiungendo che «La storia naturale delle specie, in particolare ciò che mangiano, come si nutrono e in che modo cambiano nel corso della loro vita, possono influenzare i loro livelli di contaminazione».

Queste nuove informazioni su come la plastica si sposta attraverso l’ambiente e nei pesci potrebbe aiutare ad aggiungere un altro pezzo al puzzle sempre più chiaro e preoccupante della dinamica e degli impatti della plastica nell’ambiente costiero della California.

La Talley, ricercatrice alla Scripps Institution of Oceanography, sottolinea che «Negli ultimi due decenni, abbiamo iniziato a renderci conto dell’enorme quantità in cui le minuscole materie plastiche stanno entrando nei nostri ecosistemi marini dai bacini idrografici urbani. Ma ci sono ancora molte domande a cui rispondere».

Gran parte di questa plastica viene da fonti terrestri – in parte le stesse dello studio australiano – ed è trasportata dai fiumi, in particolare i corsi d’acqua urbani, che sono i principali canali per l’afflusso dei rifiuti dalla terra al mare. Ma ci sono ancora molte domande alle quali rispondere su cosa succede alle materie plastiche quando si degradano e si spostano nell’ambiente, su come influenzano la fauna selvatica che può ingerirle e su quali altri contaminanti trasportano e trasmettono lungo la rete e, alla fine, su quale impatto può avere la plastica così diffusa nell’ambiente sulle persone che possono essere esposte a loro attraverso il consumo di prodotti ittici.

Per cercare di capire meglio gli impatti delle plastiche e sui pesci, il team della Talley si è concenntrato sul Chollas Creek un torrente che scorre nell’area urbana densamente abitata di San Diego e sfocia nella Baia di San Diego, che si dice sia la seconda più inquinata del paese. Hanno così identificato 25 categorie di materie plastiche nei sedimenti, compresi pezzi di film per alimenti, polistirolo, plastica morbida e dura, microsfere e fibre sintetiche, con le fibre e i pezzi – sia duri che morbidi – che costituiscono il 90% dei frammenti trovati nel letto del torrente. Dallo studio è emerso però che i pesci sembravano consumare solo circa la metà delle categorie di plastica osservate nell’ambiente.

La Venuti spiega che «I tipi più comuni di plastica che abbiamo visto nelle viscere dei pesci erano fibre sintetiche e pezzi duri. Abbiamo anche notato che molte delle materie plastiche assomigliavano ad altri oggetti predati presenti nelle viscere dei pesci sollevando la questione se alcune materie plastiche vengano scambiate come cibo».

Facendo un confronto tra le specie di pesci, il team ha anche riscontrato differenze nei tipi di plastica consumata. Ad esempio, i killifish della California (Fundulus parvipinnis) avevano maggiori probabilità di consumare microsfere, utilizzate nei prodotti per la cura personale e per la pulizia. Inoltre, i killifish californiani più grossi, e quindi più vecchi, di solito avevano più materie plastiche nelle viscere.

La Talley conclude: «Se vogliamo ridurre i rischi che l’inquinamento di plastica comporta per la vita marina e, in definitiva, per l’uomo, dobbiamo comprendere meglio i processi alla base dell’ingresso della plastica nelle reti alimentari. Non è più sufficiente documentare tutti i luoghi nei quali troviamo la plastica. Se vogliamo sviluppare soluzioni, abbiamo bisogno di una comprensione più chiara di come e perché la plastica si sposta attraverso gli ecosistemi».